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giovedì 29/05/2025 • 06:00

Fisco DALLA CASSAZIONE

Successione: imposta non dovuta con la revoca

Anche qualora sia stata presentata la dichiarazione di successione, nel caso di revoca dell'eredità non si renderà dovuta l'imposta sulle successioni. Lo ha chiarito la Corte di cassazione con sentenza 27 maggio 2025 n. 14063.

di Andrea Carinci - Professore ordinario Università di Bologna e patrocinante in Cassazione

di Adriana Patumi - Dottoressa, praticante Studio legale Carinci Rasia

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  • Tempo di lettura 3 min.
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La Corte di cassazione, con la sentenza n. 14063/2025, ha stabilito che l'imposta sulle successioni non è dovuta se l'eredità viene revocata, anche se era già stata presentata la dichiarazione di successione.

Imposta di successione e revoca del testamento

La Corte di cassazione ha risolto una questione, che fino a quel momento risultava priva di precedenti specifici, in materia di fiscalità delle successioni.

La Suprema Corte, in particolare, si è occupata dell'ipotesi del chiamato all'eredità che abbia presentato dichiarazione di successione, per poi scoprire l'esistenza di ulteriori testamenti validi, disposti a favore di una terza persona, successivi a quello mediante il quale era stato istituito erede. Ebbene, la Cassazione ha evidenziato come la revoca tacita del testamento comporti la perdita degli effetti della relativa accettazione e, pertanto, determini la non debenza delle imposte di successione.

Nello specifico, la pronuncia della Suprema Corte è stata occasionata dal contenzioso sorto tra un contribuente e l'Agenzia delle Entrate, la quale aveva richiesto al primo il versamento dell'imposta di successione, così come risultante dalla dichiarazione dallo stesso presentata sulla base di un testamento che lo istituiva erede universale.

Il contribuente, però, aveva proposto ricorso al Giudice tributario, rilevando l'insussistenza del presupposto impositivo. Infatti, dopo l'apertura della successione, erano stati pubblicati due testamenti olografi a favore di una terza persona, i quali, poiché datati posteriormente, avevano determinato l'inefficacia delle disposizioni ereditarie precedenti.

A fronte di tale posizione, l'Agenzia delle Entrate eccepiva come l'imposta sulle successioni debba essere applicata in base alle disposizioni contenute nel testamento e come, del resto, il contribuente avesse proceduto all'accettazione, rivendicando la sua qualità di erede e contestando giudizialmente la falsità dei due testamenti successivamente pubblicati dalla de cuius.

Nell'analisi della questione giova ricordare come il D.Lgs. 346/90 prevede che, fino a quando l'eredità non sia stata accettata da tutti i chiamati, l'imposta dovrà essere determinata considerando come eredi coloro che non vi abbiano rinunciato.

Nonostante, quindi, il presupposto del tributo debba essere individuato nella chiamata all'eredità e non nella sua accettazione, tale individuazione resterà subordinata all'effettivo acquisto della qualità di erede, per cui l'imposta dovrà essere determinata considerando come eredi i chiamati che non provino di aver rinunciato all'eredità o di non avere titolo di erede legittimo o testamentario.

Evidentemente, il presupposto d'imposta implica che le disposizioni testamentarie siano dotate di efficacia giuridica, la quale può venire meno per effetto di una revoca, sia essa espressa oppure tacita (per mezzo di un nuovo testamento le cui disposizioni siano incompatibili rispetto al precedente).

Ebbene, la revoca del testamento comporta la rimozione retroattiva, in tutto o in parte, dell'efficacia giuridica delle precedenti disposizioni ereditarie, le quali dovranno intendersi come se non fossero mai esistite.

Specularmente, il chiamato all'eredità in virtù di un testamento revocato dovrà considerarsi come mai chiamato alla successione: nel caso del contribuente in esame, pertanto, il testamento in suo favore ha perso del tutto la sua efficacia, venendo meno non tanto la delazione, quanto la vocazione stessa, provocando il conseguente venire meno della sua precedente qualità.

Osservazioni

La soluzione giuridica prospettata dalla Corte di cassazione appare quantomai logica, nonché il frutto di un'operazione ermeneutica improntata al rispetto del principio di capacità contributiva di cui all'art. 53 c. 1 Cost., soprattutto nella sua declinazione di forza economica effettiva.

A ben vedere, infatti, il presupposto del prelievo tributario, almeno per le imposte, deve trovare la propria giustificazione in un atto o in un fatto dotato di una qualche valenza economica, il quale, nel caso dell'imposizione sulle successioni, risiede proprio nella traslazione di ricchezza non onerosa mortis causa. Traslazione che, con ogni evidenza, non potrà mai sussistere nei confronti di chi non è (più) erede.

Di conseguenza, l'Agenzia delle Entrate potrà pretendere il pagamento del tributo nei confronti di un altro debitore, ossia colui che sia stato interessato dagli effetti traslativi del testamento valido: ci si riferisce al nuovo chiamato all'eredità che abbia accettato la stessa, il quale dovrà adempiere all'obbligo di presentazione di una ulteriore dichiarazione di successione a sé riferibile.

Fonte: Cass. 27 maggio 2025 n. 14063

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