Dal contenzioso al processo tributario: da formula celebrativa a riassunto di un fallimento
La funzione amministrativa d’imposizione tributaria ha avuto, nella storia, una sfera applicativa ampia rispetto alle altre funzioni pubbliche. Essa operava infatti stabilmente nei confronti di esponenti delle classi abbienti o comunque agiate, per cui era facile interloquire con la classe dirigente. Il numero di reclami gerarchico politici contro la determinazione delle imposte era abbastanza numeroso, il che portò all’istituzionalizzazione di organi di contenzioso, successivo o preventivo, come i catasti. La tutela in materia tributaria fu quindi più articolata e istituzionalizzata che in altri settori del diritto amministrativo speciale, dove le rimostranze qualificate erano più episodiche. Questa particolarità si è rivelata più un problema che un’opportunità, specie senza adeguate spiegazioni giuridico sociali nel senso indicato in Lupi, Studi sociali e diritto; l’estensione della tutela giurisdizionale contro il cattivo esercizio delle funzioni pubbliche avvenne infatti con una cosmesi delle precedenti tutele di contenzioso amministrativo. Quest’ultimo, nel 1973, fu addirittura abolito, e le precedenti commissioni tributarie furono rivestite di una superficiale giurisdizionalità.
Nella sostanza fu però mantenuta un’anomalia rispetto alla tutela giurisdizionale amministrativa, cioè la rideterminazione dell’imposta da parte del giudice, nei limiti dell’atto impugnato, secondo la c.d. impugnazione merito, per cui rinvio al precedente mio intervento. Si andò quindi dal contenzioso al processo tributario, formula facile da ritorcere contro la chiave celebrativa con cui era stata enunciata in dottrina. Nella generalità delle funzioni amministrative, infatti, il contenzioso scremava le controversie, mentre il processo giurisdizionale, impostato come impugnazione-annullamento, non sostituiva il giudice all’amministrazione attiva. In materia tributaria invece il contenzioso amministrativo sparì, trasformandosi in giurisdizionale, ma continuando a rideterminare l’imposta, con proporzioni abnormi in quanto sostitutivo degli uffici.
La processualizzazione oltre il mito della parità formale tra le parti
La riforma del 1992, col suo riferimento al processo civile, ha caricato di orpelli il rito, senza migliorarne i contenuti, e ulteriormente disorientando i difensori. Essi sono stati infatti ulteriormente indotti a pensare che l’oggetto del processo tributario corrispondesse a quello del processo civile, cioè la determinazione dell’imposta, anche per l’applicazione formale dei criteri dell’onere della prova, della tutela di diritto soggettivo, ecc. Purtroppo, dietro queste formule di facciata, l’onere della prova è applicato in modo asimmetrico, consentendo agli uffici di accertare maggiori ricavi anche con ragionamenti presuntivi molto deboli; per i costi e le azioni di rimborso l’onere della prova è stato invece addossato al contribuente con molto rigore. Alla fine, il mito della parità delle parti processuali, applicato a parti oggettivamente dispari, ha danneggiato quella debole, cioè i difensori dei contribuenti. Non deve trarre in inganno la statistica sull’equilibrio tra vittorie e sconfitte tra contribuenti e uffici tributari; le vittorie dei primi riguardano infatti pratiche seriali, ad alta evidenza documentale, dove però l’ufficio non si sente di accogliere direttamente le ragioni del contribuente per cautela o deresponsabilizzazione. Sulle pratiche complesse, di evasione in senso materiale, o di questioni interpretative sofisticate, gli uffici tendono invece a prevalere, semplicemente perché i contenuti complessi disorientano i giudici, che si sentono più rassicurati, nell’incertezza, a seguire la parte pubblica, rivisitando l’antico brocardo in dubio pro fisco.
Correttezza del comportamento dell’ufficio come oggetto del processo
Il difensore tributario farà quindi bene, nella confusione sopra descritta, a tener presente che l’effettivo oggetto del processo tributario è la correttezza dell’agire amministrativo, non il contenuto del provvedimento impugnato, nel nostro caso l’imposta dovuta. Al giudice non interessa cioè in prima battuta rideterminare l’imposta, ma capire che questa determinazione è avvenuta così malamente che l’atto impugnato merita di essere annullato. L’ostacolo a questa conclusione è che l’azione amministrativa, vista la tempistica del processo e le decadenze, sarà definitivamente vanificata.
Su queste premesse il difensore tributario deve evitare due rischi opposti, quello di concentrarsi su una serie di vizi formali, in genere procedurali, scollegati rispetto all’imposta dovuta, e avventurarsi in rideterminazioni alternative di quest’ultima. La corretta via intermedia è invece soffermarsi sulla determinazione dell’imposta, ma non per sostituirla con una determinazione diversa, quanto piuttosto per mettere in risalto la presenza di vizi logici al suo interno, tali da giustificarne l’integrale e irrimediabile annullamento. In questa cornice possono essere valorizzati anche vizi formali, come la mancata effettuazione di determinate indagini, a portata di mano dell’ufficio, o il disconoscimento immotivato di informazioni che il contribuente aveva fornito durante l’istruttoria o dopo la sua conclusione. I vizi formali dovrebbero quindi essere fatti valere in modo sinergico con la non verosimiglianza economico-sostanziale della rettifica impugnata. Quest’ultima viene però valutata in relazione alla credibilità del dichiarato, e nella misura in cui se ne dubita è bene prepararsi il piano b di cui al punto successivo.
L’auto-rideterminazione processuale dell’imposta come strategia di difesa
Il difensore tributario deve tenere presente che i giudici confronteranno d’istinto il presupposto accertato con quello dichiarato. Nella misura in cui il secondo è verosimile, il giudice sarà più disponibile verso l’integrale annullamento della rettifica. Per quanto quest’ultima sia motivata in modo debole, invece, il giudice sarà restio ad annullarla tourt court nella misura in cui percepisce infedeltà dichiarative in capo al contribuente. A questa ritrosia verso l’annullamento totale si aggiunge quella verso una rideterminazione dell’imposta da parte del giudice, in cui esso raramente se la sente di esporsi, e che comunque avverte come impegnativa. Accanto alla preoccupazione di fare giustizia, il processo è anche spiegabile con la necessità del giudice di liberarsi della pratica; c’è quindi il concreto rischio che pretese tributarie molto deboli vengano confermate per la riluttanza del giudice ad effettuarne una rideterminazione. Quest’ultima dovrebbe quindi essere anticipata dal difensore tributario, tra le righe degli atti processuali, o con una proposta di conciliazione metodologica tesa cioè a indicare all’ufficio alcuni criteri per una rideterminazione condivisa del presupposto. Si tratta di indebolire il meno possibile le proprie difese, rendendosi conto però dei rischi di offrire al giudice una soluzione prendere o lasciare quando la posizione del contribuente presenta le suddette sensibili criticità. In questo caso anche il processo tributario, secondo la sua matrice amministrativistica, può diventare, parafrasando Von Clausewitz su guerra e politica, una continuazione dell’interlocuzione con l’ufficio tributario, usando altri mezzi.