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venerdì 26/09/2025 • 06:00

Lavoro DALLA CASSAZIONE

Dimissioni lavoratore in prova: sono revocabili entro 7 giorni

Le dimissioni rassegnate in modalità telematica, contrariamente a quanto espresso in precedenza dal Ministero del Lavoro in una circolare, possono essere revocate entro 7 giorni anche nei rapporti di lavoro in cui è accluso un patto di prova: a dichiararlo è la Cassazione con l'ordinanza n. 24991 dell'11 settembre 2025.

di Elena Cannone - Avvocato

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Nel caso oggetto dell'ordinanza della Corte di Cassazione n. 24991 dell'11 settembre 2025, il Tribunale di prime cure aveva accolto il ricorso presentato da un lavoratore, assunto il 4 settembre 2019, affinché venisse dichiarata legittima ed efficace la revoca delle dimissioni rassegnate il giorno successivo, effettuata il 12 settembre 2019.

Il Tribunale aveva così condannato la società a riammetterlo in servizio, rigettando la domanda relativa al pagamento delle retribuzioni maturate nelle more, ritenendo che il rapporto dovesse essere ripristinato nello stato iniziale, ovvero in pendenza del periodo di prova.

Avverso la decisione di primo grado, la società proponeva appello che veniva respinto. Secondo i giudici di merito, l'art. 26 del D.Lgs. 151/2015 esclude espressamente la propria applicabilità solo in relazione a tre specifiche ipotesi: il lavoro domestico, le dimissioni rassegnate in sede protetta ed i rapporti con le pubbliche amministrazioni, senza fare alcuna menzione del periodo di prova. Le eccezioni previste devono, quindi, ritenersi di stretta interpretazione, non suscettibili di applicazione analogica.

Proponeva ricorso in cassazione la società a cui resisteva il lavoratore con controricorso.

Normativa di riferimento

L'art. 26 D.Lgs. 151/2015, intitolato “Dimissioni volontarie e risoluzione consensuale”, prevede che “al di fuori delle ipotesi di cui all'articolo 55, comma 4, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, le dimissioni e la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro sono fatte, a pena di inefficacia, esclusivamente con modalità telematiche su appositi moduli resi disponibili dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali attraverso il sito www.lavoro.gov.it e trasmessi al datore di lavoro e alla Direzione territoriale del lavoro competente (ndr oggi Ispettorato Territoriale del Lavoro) con le modalità individuate con il decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali”.

Entro 7 giorni dalla data di trasmissione del modulo il lavoratore ha la facoltà di revocare le dimissioni e la risoluzione consensuale con le medesime modalità.

Ai sensi dei commi 7 e 8bis del medesimo articolo, quanto sopra non è applicabile al lavoro domestico e nel caso in cui le dimissioni o la risoluzione consensuale intervengono nelle sedi protetti o avanti alle commissioni di certificazione ex art. 76 del D.Lgs. 276/2003 così come ai rapporti di lavoro alle dipendenze di amministrazioni pubbliche di cui all'art. 1 c. 2 D.Lgs. 165/2001.

La circolare del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali n. 12 del 4 marzo 2016, con cui sono state fornite indicazioni circa le modalità di comunicazioni delle dimissioni e della risoluzione consensuale, ha precisato, tra le altre, che la disciplina introdotta dall'art. 26 non si applica al recesso durante il periodo di prova di cui all'art. 2096 c.c.

La Corte di Cassazione, investita della causa, afferma che la questione verte sull'interpretazione dell'art. 26 D.Lgs. 151/2015, la cui ratio, come chiarito dai lavori preparatori, è quella di garantire l'autenticità della manifestazione di volontà del lavoratore e di contrastare il fenomeno delle c.d. “dimissioni in bianco”.

Fattispecie escluse dalla disciplina di cui all'art. 26 D.Lgs. 151/2015: gerarchia delle fonti

In merito alla eccepita esclusione del periodo di prova dall'ambito di applicazione della predetta disposizione - fondata sulla sopra citata circolare - la Corte di Cassazione osserva come la Corte d'Appello l'abbia ritenuta non applicabile al caso di specie. Ciò in quanto essa introdurrebbe un'ipotesi derogatoria non prevista dalla norma primaria (ossia l'art. 26), avente carattere eccezionale e, come tale, non suscettibile di applicazione oltre i limiti ivi espressamente considerati.

Sul punto la Corte di Cassazione segnala che le circolari ministeriali rappresentano meri atti interni dell'amministrazione, rivolti esclusivamente agli organi e al personale dipendente dell'ufficio, con la funzione di uniformarne l'operato. Tali atti non hanno valore normativo, non producono effetti esterni, né possono vincolare l'interpretazione giudiziale o limitare i diritti dei cittadini. Si tratta, in sostanza, di direttive di comportamento impartite dal vertice amministrativo, vincolanti solo per gli uffici subordinati.

Corretta, dunque, appare la valutazione della Corte d'appello che ha qualificato la circolare ministeriale 12/2016 - in quanto interpretativa di una disposizione di legge (alias l'art. 26 D.Lgs. 151/2015) - come atto interno privo di rilevanza esterna, volto unicamente a garantire coerenza nell'azione amministrativa.

Al riguardo, la Corte distrettuale ha evidenziato come la ratio del patto di prova e quella sottesa all'art. 26 D.Lgs. 151/2015 siano differenti e non interferiscano reciprocamente. In particolare, la prima mira a tutelare l'interesse comune di verifica del contratto, la seconda ad evitare abusi datoriali, specialmente in una posizione di debolezza del prestatore. Ed è sulla base di tali considerazioni che i giudici di merito hanno ritenuto pienamente valida ed efficace la revoca delle dimissioni rassegnate il 12 settembre 2019.

In modo coerente, la Corte d'appello ha, altresì, qualificato le ipotesi di esclusione di cui ai commi 7 e 8bis dell'art. 26 come eccezioni alla regola generale sancita nei commi 1 e 2, da interpretarsi restrittivamente e, tra di esse, non può includersi il periodo di prova, “pena la lesione della stessa ratio della norma”.

Effetti della revoca

Secondo la Corte di Cassazione non può trovare accoglimento neanche l'eccezione della società per cui, in caso di invalidità/inefficacia delle dimissioni in periodo di prova, al lavoratore spetterebbe solo il risarcimento del danno e non la reintegrazione.

L'art. 26, pur imponendo requisiti formali per la validità delle dimissioni, non incide sulla natura dell'atto, che resta un negozio unilaterale recettizio. Tuttavia, ne subordina l'efficacia al rispetto della forma vincolata, salvo il caso in cui le dimissioni o la risoluzione consensuale siano rilasciate in sede protetta o davanti alla Commissione di certificazione.

Le finalità perseguite dal legislatore con tali previsioni sono due: da un lato, garantire la certezza della data di manifestazione della volontà, così da impedire fenomeni illeciti quali le “dimissioni in bianco”; dall'altro, assicurare che la volontà del lavoratore di interrompere il rapporto sia consapevole e libera da pressioni o condizionamenti da parte del datore di lavoro.

La ratio dell'art. 26 risulterebbe frustrata se alla tempestiva revoca delle dimissioni conseguisse comunque la risoluzione del rapporto di lavoro, con un modesto risarcimento del danno.

Sebbene durante il periodo di prova sussista per entrambe le parti la facoltà di recedere liberamente, ciò non esime dall'obbligo che tale fase si svolga in modo effettivo, con tempi e modalità idonei a consentire una reale verifica della reciproca convenienza del rapporto, nel rispetto del principio di buona fede.

In tale prospettiva, la validità della revoca intervenuta il 12 settembre 2019 non precludeva alle parti di valutare, all'esito dell'effettivo svolgimento della prova (o, come correttamente rilevato dalla Corte, quando questa avesse avuto una durata sufficiente), la reciproca convenienza del rapporto.

La giurisprudenza richiamata dalla società (Cass. n. 31159/2018 e Cass. n. 29208/2019) attiene a fattispecie differenti, concernenti l'accertamento giudiziale dell'illegittimità del recesso datoriale nel corso del periodo di prova. Nel caso di specie, infatti, la questione non riguarda l'illegittimità del recesso datoriale bensì l'efficacia della revoca delle dimissioni esercitata dal lavoratore in modo tempestivo e conforme all'art. 26. Tale revoca, validamente esercitata, priva di effetti la dichiarazione di dimissioni, determinando il pieno ripristino della situazione antecedente, senza dar luogo a un obbligo risarcitorio.

Alla luce di ciò non può ritenersi fondata l'eccezione secondo cui il periodo di prova si sarebbe ormai esaurito al momento dell'instaurazione del giudizio. Il periodo di prova - laddove risulti interrotto da un atto inefficace (come nel caso di specie, in cui le dimissioni sono state tempestivamente revocate) - deve ritenersi integralmente ripristinato, al fine di consentire il corretto esperimento della prova.

In considerazione di tutto quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione conclude per il rigetto del ricorso proposto dalla società e la rifusione delle spese in favore del lavoratore.

Fonte: Cass. Ord. n. 24991 dell'11 settembre 2025

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