mercoledì 17/09/2025 • 06:00
L'uso dei social da parte dei lavoratori amplifica il diritto di critica, ma richiede attenzione ai limiti della correttezza, del rispetto reciproco e della pertinenza dei contenuti: l'adozione di policy aziendali rappresenta uno strumento preventivo efficace per chiarire i confini tra espressione personale e tutela dell'immagine aziendale.
Di questi tempi è sempre più frequente vedere persone esporre online opinioni personali o idee politiche, anche su piattaforme ad uso prevalentemente professionale. L'uso dei social network ha trasformato profondamente il rapporto di lavoro, rendendo sempre più delicato il bilanciamento tra il diritto del lavoratore alla libera manifestazione del pensiero e le necessità di tutela della reputazione e dell'immagine dell'impresa.
Libertà di pensiero e di critica nei luoghi di lavoro
A dire il vero, non si tratta di questioni sconosciute al nostro ordinamento: infatti, l'art. 21 della Costituzione tutela la libertà di espressione come diritto fondamentale della persona, mentre l'art. 1 dello Statuto dei lavoratori garantisce ai dipendenti il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero nei luoghi di lavoro, nel rispetto della Costituzione e delle leggi vigenti.
Questi diritti, tuttavia, non possono essere esercitati in modo incondizionato: essi infatti devono conciliarsi con l'obbligo di fedeltà previsto dall'art. 2105 del Codice Civile, oltre che, ovviamente, con i principi generali di correttezza e buona fede.
La critica del lavoratore è una manifestazione di opinione personale, non può essere sindacata e non deve essere necessariamente oggettiva. Tuttavia, deve rispettare tre limiti fondamentali:
Ad esempio, se un turno di lavoro è stato organizzato in modo sfavorevole, il dipendente può esprimere due tipi di critica: in modo corretto e pertinente, potrebbe scrivere “I turni di questa settimana risultano troppo pesanti per il team, sarebbe utile rivedere la programmazione”; in modo scorretto e offensivo, invece, potrebbe dire “Il capo non sa organizzare nulla, ci sta solo rovinando”, superando così i limiti della continenza espressiva e della pertinenza).
L'avvento dei social media: la reputazione delle imprese sempre più rischio
Con l'avvento dei social media, le stesse regole si applicano anche al comportamento digitale del dipendente. I post pubblici sui social network possono diffondere rapidamente il pensiero del lavoratore, ampliando l'impatto della critica. Proprio in ragione della particolare risonanza che possono assumere le manifestazioni del pensiero tramite i social, la giurisprudenza ha ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa a fronte di post contenenti offese personali ai vertici aziendali o denigrino l'impresa, come nel caso del lavoratore-sindacalista responsabile di aver pubblicato sui social reiterati commenti ritenuti gravemente lesivi dell'immagine dell'azienda e di persone a essa collegate (Cass. 35922/2023), o nel caso della lavoratrice responsabile di aver postato su Facebook un commento offensivo sulla propria datrice di lavoro (Cass. 10280/2018) o, ancora, nel caso della lavoratrice che aveva postato su Twitter dei messaggi offensivi e denigratori nei confronti della società datrice di lavoro (Trib. Busto Arsizio, 62/2018). Senza contare, poi, che post offensivi possono integrare anche il reato di diffamazione aggravata ex art. 595 c.p.
D'altro canto, la comunicazione privata o circoscritta a chat e gruppi chiusi, pur contenente critiche, non giustifica di norma il licenziamento se non emergono intenti denigratori gravi (Cass. 21965/2018; Trib. Parma, 237/2019).
Caso leggermente diverso è quello dei rappresentanti sindacali, per i quali il diritto di critica gode di una tutela rafforzata, purché fondato su fatti veri e formulato nel rispetto della correttezza formale, senza denigrazione personale (Cass. 10897/2018; Cass. 18176/2018). In tal caso, anche critiche severe e aspre possono rientrare nella libera manifestazione del pensiero, se correlate all'interesse collettivo dei lavoratori.
Dal rischio alla prevenzione: le Social Media Policy
Sul piano organizzativo, molte imprese hanno iniziato da diversi anni ad adottare specifiche regolamentazioni interne (Social Media Policy), allo scopo indicare regole di condotta per la gestione dei profili aziendali e personali dei dipendenti.
Queste policy, ovviamente, pur essendo assimilabili ad un regolamento aziendale (in quanto diretta derivazione dell'art. 2086 del Codice Civile secondo cui «L'imprenditore, … ha il dovere di istituire un assetto organizzativo … adeguato alla natura e alle dimensioni dell'impresa…»), non possono avere lo scopo di comprimere o limitare indirettamente l'esercizio dei diritti fondamentali dei lavoratori; la loro funzione, piuttosto, sarà quella di orientare l'attività dei dipendenti nel rispetto dei principi di correttezza, buona fede e fedeltà al contratto di lavoro subordinato (art. 2105 c.c.), fornendo indicazioni preventive sui comportamenti idonei a evitare la divulgazione di informazioni riservate, la lesione della reputazione aziendale, la diffusione di contenuti offensivi o discriminatori, e ogni altra condotta potenzialmente pregiudizievole per l'immagine o gli interessi dell'impresa.
In definitiva le Social Media Policy si configurano come strumenti di governance preventiva (di cui tutte le imprese dovrebbero dotarsi), sempre più essenziali per orientare i dipendenti nell'uso responsabile dei canali digitali. Esse non solo delineano i confini entro cui è lecito esercitare il diritto di critica, ma fungono anche da scudo giuridico per l'impresa, riducendo il rischio di esposizione a danni legali o reputazionali derivanti da comportamenti inappropriati online.
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Paolo Patrizio
- Avvocato - Professore - Università internazionale della Pace delle Nazioni UniteRimani aggiornato sulle ultime notizie di fisco, lavoro, contabilità, impresa, finanziamenti, professioni e innovazione
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