venerdì 06/06/2025 • 06:00
Il 24 aprile 2025 è entrata in vigore la L. 56/2025, che ha abrogato diversi atti normativi considerati superati: tra questi, tuttavia, figurava anche il famoso Regio Decreto n. 2567/1923 contenente le attività per le quali è possibile ricorrere all'odierno lavoro a chiamata o intermittente, di cui al D.Lgs. 81/2015. Esaminiamo le conseguenze pratiche dell'abrogazione.
Non impariamo mai. Tuonerebbe il sommo Balasso: “Come puoi semplificare se non hai in testa la complessità?”.
Tale semplice battuta riassume perfettamente cosa sta succedendo in tema di ricorso al lavoro intermittente (o contratto a chiamata, o job on call) di cui al D.Lgs. 81/2015, in seguito alla recente entrata in vigore della L. 56/2025.
Il lavoro intermittente: le origini
Che l'istituto del contratto a chiamata non trovasse gradimento era già chiaro sin dai suoi esordi, risalenti alla cd. riforma Biagi del 2003 (D.Lgs. 276/2003).
Non dimentichiamo infatti che, secondo la struttura normativa base, erano i contratti collettivi a dover prevedere delle attività a merito delle quali fosse possibile procedere al ricorso al contratto a chiamata. Come altrettanto noto, la contrattazione nazionale pacificamente non è intervenuta;anzi, in alcuni casi la tendenza era verso la "censura" del nuovo istituto. Sono infatti dovuti intervenire sia la Cassazione (Cass. n. 29423 del 13 novembre 2019) che l'Ispettorato Nazionale del Lavoro (con la circolare INL n. 1 del 2021) per precisare come alla contrattazione collettiva fosse dato il poter di prevedere ipotesi di applicabilità e non di negarle, se le attività erano già previste nel novero del RD 2567/1923.
Ecco perché nel 2004 il Ministero del Lavoro concesse l'applicabilità del lavoro intermittente alle cd. attività discontinue, riesumando il polveroso RD 2567/1923 (applicabile allorquando non vi fossero le ragioni soggettive connesse all'età anagrafica del lavoratore, ancora oggi vigenti).
Ora, la (in)consapevole abrogazione del regio decreto in parola con decorrenza dal 24 aprile 2025, a cura della L. 56/2025, crea un vuoto normativo che va affrontato.
Il lavoro intermittente nel 2025
Come al solito, partiamo dalle basi.
Il contratto di lavoro intermittente è il contratto mediante il quale un lavoratore si pone a disposizione di un datore di lavoro per lo svolgimento di prestazioni di lavoro aventi carattere discontinuo o intermittente, secondo le esigenze individuate dalla contrattazione collettiva (che, come abbiamo visto, è scientemente manchevole) e con riferimento anche ad attività da svolgersi in periodi predeterminati nell'arco della settimana, del mese o dell'anno.
In assenza di determinazione da parte della contrattazione collettiva, i casi di utilizzo del lavoro intermittente sono individuati con apposito decreto del Ministero del lavoro che, nel 2004, ha stabilito come si possa fare riferimento per il lavoro intermittente all'elencazione delle attività definite come discontinue sulla base del RD 2657/1923.
Il contratto, per il quale la legge richiede la forma scritta solo a fini di prova e nel quale è comunque previsto che alcuni elementi trovino specifica dettagliata indicazione (ad esempio le fasce orarie in cui è possibile “chiamare” il lavoratore ex art. 15 D.Lgs. 81/2015, come modificato dal D.Lgs. 104/2022), può essere concluso a tempo indeterminato oppure a tempo determinato. In caso di assunzione a tempo determinato non trova applicazione la disciplina sul contratto a tempo determinato prevista dalla legge (artt. 19-29 D.Lgs. 81/2015).
La caratteristica più importante di tale istituto è la discontinuità delle prestazioni di lavoro e l'alternarsi, pertanto, di cicli di lavoro e di fasi in cui il lavoratore non svolge alcuna attività restando in “attesa di chiamata” dal datore di lavoro con cui ha concluso tale contratto. Nasce dunque la possibilità di inserita una “disponibilità” più o meno obbligatoria:
La misura dell'indennità mensile di disponibilità, divisibile in quote orarie, viene determinata dai contratti collettivi e non può essere comunque inferiore all'importo fissato con apposito decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, sentite le associazioni sindacali comparativamente più̀ rappresentative sul piano nazionale. Il DM 10 marzo 2004 ha stabilito la misura minima dell'indennità mensile di disponibilità in un importo pari al 20% della retribuzione di riferimento prevista per il corrispondete livello di inquadramento dal CCNL applicato.
L'indennità̀ di disponibilità̀ viene corrisposta alla fine del mese di riferimento (cfr. Min. Lav. circ. n. 4/2005) ed è esclusa dal computo di ogni istituto di legge o di contratto collettivo ed è assoggettata a contribuzione previdenziale per il suo effettivo ammontare, in deroga alla normativa in materia di minimale contributivo.
Attenzione: tale forma di contratto riveste un carattere particolare per il settore turistico, considerata la sua estrema flessibilità e la circostanza che in questo settore non valgono i limiti massimi di prestazione annua (pari a 400 giornate in 3 anni solari) previsti dalla legge (artt. 13-18 D.Lgs. 81/2015). Al di fuori dei settori del turismo, dei pubblici esercizi e dello spettacolo, il contratto di lavoro intermittente è infatti ammesso, per ciascun lavoratore e con il medesimo datore di lavoro per un periodo complessivamente non superiore a 400 giornate di effettivo lavoro nell'arco di 3 anni solari. In caso di superamento del predetto limite, il rapporto di lavoro si trasforma in rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
Il vuoto normato dopo l'abrogazione del regio decreto
Al grido di “semplifichiamo”, con effetto dal 24 aprile 2025 entra in vigore la L. 56/2025 (norma interessante rubricata “Abrogazione di atti normativi prerepubblicani relativi al periodo dal 1861 al 1946) con cui il legislatore saluta il caro regio decreto.
Ma cosa comporta la sua mancanza?
Fermo restando la necessità di un chiarimento, sembra che non comporti nulla: il rimando del Ministero rimane un atto normativo che, vigente o meno, rimane identico nel suo contenuto. In tal senso, ad oggi non si può supporre che il rimando o riferimento debba per forza essere stato compromesso dalla vigenza di quella disposizione.
Peraltro:
Quindi, in questo caso, tutto bene quel che finisce bene.
Almeno speriamo.
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Francesco Geria
- Consulente del lavoro in Vicenza - Studio LabortreRimani aggiornato sulle ultime notizie di fisco, lavoro, contabilità, impresa, finanziamenti, professioni e innovazione
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