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giovedì 22/05/2025 • 06:00

Lavoro DALLA CASSAZIONE

Controlli difensivi sui lavoratori: leciti solo in presenza di fondato sospetto

La Corte di Cassazione, con ordinanza 24 aprile 2025 n. 10822, ha affermato che la legittimità dei controlli difensivi in senso stretto richiede la presenza di un “fondato sospetto” in capo al datore di lavoro circa comportamenti illeciti di uno o più lavoratori.

di Elena Cannone - Avvocato

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  • Tempo di lettura 3 min.
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Nel caso in esame una lavoratrice, con mansioni di responsabile di uno showroom commerciale in relazione alle quali era stata inquadrata come Quadro ai sensi del CCNL Tessile Abbigliamento e Moda, veniva licenziata il 1° settembre 2022 dalla società propria datrice di lavoro per aver sottratto alcuni prodotti.

La lavoratrice impugnava giudizialmente il provvedimento espulsivo. La Corte distrettuale, condividendo l'iter argomentativo del Tribunale, lo dichiarava illegittimo, condannando la società alla sua reintegrazione nel posto di lavoro e alla corresponsione in suo favore di una indennità risarcitoria pari alle retribuzioni spettanti dal dì del licenziamento a quello dell'effettiva reintegra, oltre interessi, rivalutazione e spese di lite.

Secondo la Corte distrettuale le prove circa la responsabilità della lavoratrice in merito all'addebito mosso a suo carico non erano state legittimamente acquisite: l'indagine sulla sua condotta, svolta da un collega, e le immagini registrate dagli impianti audiovisivi erano state realizzate in violazione della normativa vigente. Ciò per l'assoluta inattendibilità del collega e perché le indagini forensi sugli strumenti aziendali assegnati alla lavoratrice, disposte dopo il licenziamento, dovevano reputarsi irrilevanti.

La società ricorreva in Cassazione, a cui resisteva con controricorso la lavoratrice. Entrambe le parti presentavano memorie.

La decisione della Corte di Cassazione

La Cassazione, nel condividere la posizione dei giudici di merito, ha osservato che la violazione dell'art. 2697 c.c., eccepita dalla società, è configurabile solo se si dimostra che il giudice abbia utilizzato prove non presentate dalle parti o al di fuori dei limiti legali, oppure abbia ignorato le prove legali o considerato come valide prove che richiedevano valutazione.

Nel caso in esame, la censura formulata dalla società si è, invece, limitata a contestare una erronea interpretazione delle prove senza fornire elementi idonei a dimostrare la confutabilità della decisione di merito.

Ciò detto, i giudici di legittimità hanno sottolineato come la Corte d'Appello avesse ritenuto il comportamento del collega – il quale, dopo aver visionato le riprese telematiche e notato la presenza della lavoratrice nello showroom, si sarebbe introdotto nel suo ufficio durante la pausa pranzo, approfittando della sua assenza, per perquisire la borsa – basato esclusivamente su “un puro convincimento soggettivo”.

A tal proposito, la Corte ha ribadito che la legittimità dei controlli difensivi in senso stretto richiede la presenza di un “fondato sospetto” in capo al datore di lavoro circa comportamenti illeciti di uno o più lavoratori. Sul datore di lavoro grava l'onere di allegare e successivamente dimostrare le specifiche circostanze che lo hanno indotto ad effettuare il controllo tecnologico “ex post”. Ciò è necessario sia per escludere l'applicazione dell'art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, sia ai fini dell'art. 5 L. 604/1966 che impone al datore di lavoro di dimostrare di tutti gli elementi a fondamento del licenziamento. Nel caso di specie, la Corte distrettuale ha ritenuto che tale prova non fosse stata adeguatamente offerta e la relativa valutazione, hanno precisato i giudici, è sottratta al sindacato di legittimità.

Peraltro, l'indagine condotta dal collega della lavoratrice è stata ritenuta dalla Corte d'Appello, in conformità con quanto statuito dal Tribunale, in violazione delle norme a tutela della riservatezza e della dignità della persona. Nello specifico, tale condotta è stata ritenuta illecita e non giustificabile nel contesto del controllo difensivo.

Con riferimento all'utilizzo delle riprese audiovisive per controlli difensivi del patrimonio aziendale, la Cassazione sottolinea che la Corte d'appello ha condiviso la valutazione del Tribunale circa l'insufficienza della prova concernente l'adeguata informazione sull'utilizzo degli strumenti e il rispetto delle disposizioni previste dalla normativa in materia di protezione dei dati personali.

Il riferimento della società all'autorizzazione dell'Ispettorato Territoriale del Lavoro e alla policy per la lavoratrice come soggetto incaricato del trattamento dei dati personali prodotte in primo grado è stato considerato dai giudici di merito insufficiente a dimostrare il rispetto degli obblighi ex art. 4 dello Statuto dei Lavoratori.

La Cassazione precisa anche che la Corte d'Appello ha respinto la richiesta di produzione del comunicato relativo all'installazione degli impianti di videosorveglianza, sia per sua la tardività che per la mancata prova dell'effettivo rilascio dell'informativa alla lavoratrice. La Corte distrettuale ha, pertanto, dichiarato inutilizzabili le immagini e il materiale acquisito mediante le riprese nonché l'indagine, con relativa deposizione, del collega della lavoratrice.

Le stesse dichiarazioni di quest'ultimo sono state ritenute inattendibili, sia in prima che in secondo grado, a causa delle numerose incongruenze riscontrate. E, anche le affermazioni rese dall'altro teste chiamato in causa non sono state considerate sufficienti, poiché lo stesso non era presente al momento dei fatti e le sue dichiarazioni avevano un carattere meramente de relato.  

In definitiva la datrice di lavoro non ha assolto all'onere probatorio in ordine agli addebiti posti a fondamento del licenziamento per giusta causa e tale conclusione, ha osservato la Corte di Cassazione, è sottratta al sindacato di legittimità.

In considerazione di quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione ha concluso per l'inammissibilità del ricorso presentato dalla società, condannandola alla rifusione delle spese di lite.

Fonte: Cass. Ord. 10822 del 24 aprile 2025

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