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martedì 29/08/2023 • 06:00

Lavoro Parità retributiva

La trasparenza salariale viola davvero la privacy dei lavoratori?

Secondo molti mezzi stampa, la trasparenza salariale, obbligatoria secondo la Direttiva UE 2023/970, rischierebbe di mettere a nudo le retribuzioni dei lavoratori, violandone la privacy. Le cose non stanno esattamente così, anzi la Direttiva rappresenta un ulteriore passo verso la parità di genere.

di Ciro Cafiero - Avvocato - Studio Cafiero Pezzali & Associati

di Giorgio Gaudio - Avvocato giuslavorista - Studio Cafiero Pezzali & Associati

+ -
  • Tempo di lettura 4 min.
  • Ascolta la news 5:03

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La Direttiva UE n. 2023/970, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 17 maggio 2023, obbliga tutti gli Stati membri ad innalzare i livelli di trasparenza salariale.

Su molti mezzi di stampa, in questi giorni, è scattato un allarme: adeguarsi a questo obbligo significherebbe violare la privacy dei lavoratori le cui retribuzioni rischierebbero di essere messe a nudo.

Le cose non stanno esattamente in questi termini. Sono cinque gli elementi che meritano di essere chiariti.

1 - A carico delle imprese non ricade alcun obbligo imminente. Ed infatti, la deadline della direttiva è il lontano 7 giugno 2026.

2 - Si tratta di una direttiva e non di un regolamento o di una direttiva self-executing, Dunque, non è autoapplicativa. Anche il nostro Paese dovrà recepirla nel rispetto dei tradizionali principi che reggono l'ordinamento interno, compresi quelli in materia di privacy.

3 - L'obiettivo non è di per sè la trasparenza salariale ma, attraverso essa, la lotta al fenomeno della discriminazione retributiva tra uomini e donne per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore.

I dati, del resto, non sono rosei. Le retribuzioni delle lavoratrici europee scontano un gap del 13% rispetto a quelle maschili malgrado, come affermato dalla Corte di Giustizia Europea, l'eguaglianza nel trattamento economico e' ‟espressione di un diritto fondamentale della persona” (causa C-50/96, Deutsche Telekom v. Schröder, punti 55-57).

La trasparenza è richiesta sin dalla fase del recruitment. I candidati avranno diritto a informazioni chiare sulla retribuzione di ingresso, sul livello di inquadramento, sulle disposizioni collettive applicate. Mentre il datore di lavoro non potrà pretendere informazioni sulle retribuzioni passate.

Il diritto di informazione in favore dei lavoratori e ai loro rappresentanti, la procedura di valutazione congiunta per “individuare, correggere e prevenire differenze retributive tra lavoratori di sesso maschile e sesso femminile” e il ruolo forte della contrattazione collettiva sono le altre tre frecce messe nella faretra dalla direttiva.

4 - Nessun lavoratore potrà esigere dal datore di lavoro visibilità del salario dell'altro ma soltanto chiedere di conoscere le retribuzioni medie ed aggregate in azienda. La ripartizione è per categorie: livelli retributivi medi, ripartiti per sesso e categorie tra loro equiparabili. I datori saranno obbligati a rispondere entro al massimo due mesi dalla richiesta ma anche ad offrire eventuali chiarimenti.

Resta salva la facoltà di cui i lavoratori, già oggi almeno quelli italiani dispongono in assenza di precisi obblighi di riservatezza, di pubblicizzare il proprio livello salariale.

Un ulteriore obbligo riguarda i datori di lavoro con un organico tra i 100 e i 250 lavoratori, tenuti ad un rapporto approfondito sul gender pay gap in rapporto ai valori medi e aggregati. Se esso supererà il 5%, saranno obbligatorie misure correttive la cui richiesta potrà provenire dall'Ispettorato del lavoro e dagli organismi di parità.

5 - Il recepimento della direttiva non sarà complicato per il nostro Paese che, strano a dirlo, è già all'avanguardia sul terreno della parità retributiva. Ad esempio: già dal dicembre 2021, la legge 162/2021, con una modifica al D.Lgs. 198/2006, c.d. Codice delle Pari Opportunità, ha obbligato le aziende con più di 50 dipendenti a pubblicare ogni biennio un rapporto sulla situazione del personale maschile e femminile; i suoi articoli 37, 37 e 38 già prevedono una tutela giudiziale forte contro ogni discriminazione di carattere collettivo; gli organismi di parità svolgono già un ruolo molto attivo.

In definitiva, gli allarmi non sono giustificati. La Direttiva, anzi, merita esultanza. E perché no: prime pagine gloriose. Si tratta, infatti, di un ulteriore passo in avanti verso una meta che finalmente si è fatta vicina. Quella della parità di genere.

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