Il 17 maggio 2023 è un importante spartiacque per le pari opportunità. Sulla Gazzetta Ufficiale dell'Unione Europea è stata pubblicata la Direttiva (Ue) 2023/970 del Parlamento Europeo e del Consiglio per favorire la parità di retribuzione tra uomini e donne.
Uno spartiacque perchè, come abbiamo già osservato su questo quotidiano, essa in Europa è ancora un miraggio.
Le retribuzioni delle lavoratrici scontano un gap del 13% rispetto a quelle maschili. Eppure, è da tempo che la Corte di Giustizia Europea ha affermato che l'eguaglianza nel trattamento economico e' ‟espressione di un diritto fondamentale della persona” (causa C-50/96, Deutsche Telekom v. Schröder, punti 55-57).
Sono quattro i tratti salienti della direttiva.
La determinazione del salario
Il primo è lo scopo che il suo articolo 4 si pone: quello di tarare il salario su “criteri oggettivi e neutri sotto il profilo del genere”. Tra questi, competenze, impegno, responsabilità, condizioni di lavoro. La rubrica fa riferimento a “stesso lavoro e lavoro di pari valore”. Torna in mento l'inciso “a parità di lavoro” contenuto nell'articolo 37 della nostra Costituzione. Esso non voleva significare “a parità di rendimento” nel segno di quel mainstream che giudicava inferiore la produttività femminile ma, anzi, il diritto della lavoratrice alla medesima retribuzione a fronte di prestazioni di pari valore. Prova dell'istinto visionario dei nostri Padri e Madri Costituenti.
L'obbligo di trasparenza retributiva
Il secondo tratto saliente si traduce nell'accentuato obbligo di trasparenza in punto di retribuzione che la direttiva riversa sulle spalle dei datori di lavoro. E ciò, come dispone l'articolo 5, in due differenti momenti: prima e dopo l'assunzione. Anche la fase di recruitment è eletta a momento genetico del sinallagma contrattuale tra le parti del rapporto. Per la direttiva, in altre parole, l'obbligo a corrispondere una determinata retribuzione sorge sin da prima della sottoscrizione del contratto di lavoro. Corollari di questa architettura sono, da un lato, il diritto di informazione riconosciuto ai lavoratori e ai loro rappresentanti, dall'altro, la procedura di valutazione congiunta disciplinata dal successivo articolo 10. Essa è preordinata al fine di “individuare, correggere e prevenire differenze retributive tra lavoratori di sesso maschile e sesso femminile”.
Il dialogo sociale
Il terzo tratto saliente è quello della promozione del dialogo sociale. La direttiva ingaggia associazioni datoriali e sindacati nella lotta alla disparità di genere. La contrattazione collettiva è, in parole altre, candidata a strumento di contrasto della discriminazione retributiva. Su questo versante, l'impegno del nostro Paese deve tradursi nel contrasto a quei contratti collettivi “pirata” che, con buona pace dell'articolo 36 della Costituzione, sviliscono le retribuzioni dei lavoratori di entrambi i sessi. E', infatti, alto il livello di copertura della contrattazione rispetto agli altri Paese europei ma l'annosa mancanza degli indici di rappresentatività sindacale e' in grado di pregiudicarne l'efficacia.
I procedimenti amministrativi
L'ultimo tratto saliente coincide con l'obbligo degli Stati di definire procedimenti amministrativi e giudiziari a tutela della parità retributiva. Torna utile, nel nostro Paese, la speciale e dimenticata tutela giudiziale contro le discriminazioni di carattere collettivo e disegnata dal Codice delle pari opportunità, d.lgs. n. 198 del 2006 agli articoli 36,37,38.
Gli organismi di parità, invece, sono candidati ad assumere il ruolo di garanti della trasparenza retributiva in azienda in favore dei lavoratori che hanno chiesto di verificarla.
In definitiva, la direttiva è un ulteriore medicina per un male che sembrava incurabile. E come spesso accade, è l'Europa a pensarci. Che, del resto, come affermava il filosofo Patočka, è nata per “curare le anime”.
Fonte: Dir. UE 2023/970