lunedì 29/08/2022 • 06:00
La riforma del processo tributario introduce, nel rito delle “precisazioni”, chi deve fornire l’onere della prova e le circostanze che determinano la decisione del giudice. Peccato, però, che entrambi gli istituti sono già presenti nel codice civile e nel codice di procedura civile.
L’art. 6 della riforma del processo tributario, approvata in via definitiva, amplia i poteri delle Commissioni Tributarie o Corti di Giustizia tributarie.
Viene previsto che l’amministrazione provi in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato.
Ciò era rinvenibile nel nostro codice civile, che all’art. 2697 c.c. prevede che chi vuol far valere un diritto in giudizio debba provare i fatti che ne costituiscono il fondamento.
È così, “deve” essere in tutti gli ambiti: penale, civile, amministrativo e tributario.
Al nuovo giudice viene ingiunto di fondare la sua decisione sugli elementi di prova che emergono dal giudizio e di annullare l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni.
Non dovrebbe essere sempre così? Mi sembra che lo dica anche il nostro codice di procedura civile, che all’art. 115 c.p.c. prevede che, salvo i casi previsti dalla legge, il giudice debba porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti e al successivo art. 116 c.p.c. impone al giudice di valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento.
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