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martedì 26/07/2022 • 11:00

Lavoro Licenziamenti illegittimi

Corte Costituzionale: urgente intervento sul Jobs Act

La Corte Costituzionale si pronuncia sull'indennità risarcitoria in caso di licenziamento illegittimo nelle PMI prevista dal Jobs Act. Pur rigettando il ricorso di incostituzionalità, la Corte ammonisce il legislatore per una riforma urgente in materia di licenziamenti. Infatti, la dimensione occupazionale oggi non è un criterio idoneo a definire piccola un'impresa.

di Ciro Cafiero - Avvocato - Studio Cafiero Pezzali & Associati

di Margherita De Sanctis - Avvocato giuslavorista

+ -
  • Tempo di lettura 7 min.
  • Ascolta la news 5:03

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La tutela in caso di licenziamenti illegittimi nelle piccole imprese

Sono due i modi per commentare la sentenza n. 183/2022 della Corte Costituzionale. Quello di limitarsi al tecnicismo giuridico o quello, che prediligiamo, di ampliare lo sguardo al solco sociale ed economico in cui il Giudice delle Leggi ha inscritto la sua pronuncia. Lo prediligiamo perché, come insegna Teubner, il diritto è il riflesso della società.

La sentenza n. 183/2022, pubblicata solo pochi giorni fa, ha esaminato il sistema delineato dall'art. 9, co. 1° D.Lgs. n. 23/2015 in tema di licenziamenti illegittimi nelle piccole imprese.

Secondo esso, ai datori di lavoro che non possiedono i requisiti dimensionali di cui all'art. 18, co. 8° e 9°, della L. n. 300/1970, la reintegrazione nel posto di lavoro residua solo per i casi di licenziamenti nulli e intimati in forma orale; negli altri casi di licenziamenti ingiustificati è prevista un'indennità crescente di una mensilità per anno di servizio, con un minimo di 3 e un massimo di 6 mensilità.

La questione di costituzionalità è stata sollevata in relazione agli artt. 3, co. 1°, 4, 35, co. 1°, e 117, co. 1°, della Costituzione, quest'ultimo in relazione all'art. 24 della Carta sociale europea.

Le censure sono rivolte al tipo e all'ampiezza di tutela che, nel caso delle piccole imprese, sconta un abbattimento al 50%, che non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità.

Il Tribunale di Roma, rimettente, osserva che l'esiguità dell'indennizzo, in assenza della previsione dell'alternativa della riassunzione, difetterebbe della garanzia di «un'equilibrata compensazione» e di «un adeguato ristoro», da un lato, e del carattere sufficientemente dissuasivo, dall'altro, in ossequio al dettato dell'art. 24 della Carta sociale europea.

Non solo. La tutela indennitaria sotto osservazione non consentirebbe alcun adeguamento dell'importo riconosciuto alle peculiarità del caso concreto. Tra queste, la gravità della violazione o il requisito dimensionale dell'impresa sotto il profilo del dato economico di cui al bilancio.

Secondo la Corte, infatti, il legislatore dovrebbe tratteggiare criteri distintivi più duttili e complessi, che non si appiattiscano sul requisito del numero degli occupati e si raccordino, invece, alle differenze tra le varie realtà organizzative e ai contesti economici diversificati in cui esse operano.

E' anche vero che, a parere del Giudice delle Leggi, non esiste «una soluzione costituzionalmente adeguata, che possa orientare l'intervento correttivo e collocarlo entro un perimetro definito» perché la  scelta, di ampio raggio, spetta al legislatore.

Il monito della Corte

A differenza delle sentenze n. 194/2018 e n. 150/2020, infatti, in questo caso, non si tratta semplicemente di valorizzare criteri di calcolo alternativi ai fini della quantificazione delle indennità risarcitorie nelle imprese con più di quindici dipendenti. Come lo è stato, da un lato, per l'art. 18 della l. n. 300/1970, dall'altro, per l'art. 4 D.Lgs. n. 23/2015.

Su questi breve premesse tecniche, sono due gli interrogativi che dobbiamo porci. Il primo è qual'è il sotteso cambiamento socio –economico che spinge la Corte a promuovere un cambiamento legislativo.

La risposta è offerta dall'attuale composizione del sistema produttivo. Le imprese piccole sotto il profilo dimensionale non necessariamente lo sono più per fatturato, pervasività sul mercato, prospettive di crescita. È il risultato della combinazione tra forza lavoro, tecnologia e spinta all'innovazione, la c.d. “augmentation”. L'impresa ricava, da esse, un “enhamcement” in grado di renderla competitiva anche con colossi dell'imprenditoria. Basti pensare alle imprese di intermediazione informatica di servizi (alloggi, trasporti, consegne). Lo dimostra l'esperienza delle piattaforme digitali delle prime ore: i riders non erano lavoratori dipendenti, ma eserciti di collaboratori para subordinati o autonomi, privi di adeguate garanzie. I ricavi altissimi.

In altri termini, la dimensione occupazionale non è più un criterio idoneo a definire piccola un'impresa. 

È ribaltato, in altre parole, il paradigma del passato, quando l'Italia era divisa in due. Tra le imprese grandi con una grande forza lavoro, con vocazione alla produzione standardizzata di eredità fordista, e una miriade sconfinata di piccoli artigiani con pochi dipendenti, custodi del made in Italy, del prodotto “piccolo e bello”. Erano gli anni post miracolo economico, quando crescevano le esigenze dei consumatori e gli artigiani non bastavano più.

Nella vecchia Italia quando le imprese piccole per dimensioni lo erano davvero per il resto, erano giustificate le tutele affievolite per i lavoratori. Il datore di lavoro non poteva farsi carico di costi più alti ed il rapporto era sin troppo fiduciario per scontare una reintegrazione.

Il secondo interrogativo è: quali sono i passi che il Legislatore potrebbe compiere per adeguare l'art. 9, co. 1° D.Lgs. n. 23/2015 all'orientamento del Giudice delle Leggi?

La risposta non è semplice. La questione è, infatti, molto delicata.

Ancora esistono un'altrettanta miriade di piccole imprese per dimensioni, per fatturato, per mercato, per prospettive di crescita in quel 90% di Pmi italiane. Queste imprese scontano incredibili difficoltà di sopravvivenza, strette nella morsa di un alto cuneo fiscale, di una burocrazia rigida, dell'aumento dei costi conseguenti al Covid e alla guerra in Ucraina, soprattutto del caro energia e della difficoltà di approvvigionamento delle materie prime.

La Costituzione e la tutela del lavoro

L'art. 1 della nostra Costituzione fonda la Repubblica sul lavoro e non sui lavoratori, fu l'emendamento voluto da Fanfani e Dossetti contro quello di Togliatti: la finalità era di tutelare il lavoro con uno sguardo olistico e nella prospettiva di un'alleanza tra imprese e lavoratori.

Al successivo art. 4, lo Stato si impegna a rimuovere gli ostacoli allo sviluppo in favore di imprese e lavoratori. Su questo crinale, si gioca la sfida di costituzione formale e materiale.

Al successivo art. 35, il lavoro è tutelato in tutte le sue forme, ma anche l'iniziativa economica è libera, purché entro i limiti dell'utilità sociale.

Insomma, la Costituzione non predilige né le imprese né i lavoratori, ma il lavoro, che considera il portato di un match virtuoso tra essi. È il significato del suo articolo 46. Lo smart working lo ha dimostrato. Il lavoro funziona solo grazie alla collaborazione tra lavoratori e imprese, che sono fatte dei lavoratori e non entità astratte, che camminano sulle loro gambe. In altri termini, avvolgere in altri lacci e lacciuoli le imprese rischia di colpire insieme imprese e lavoratori. Con un gioco a somma zero.

Ed allora, una soluzione bilanciata potrebbe essere quelle di garantire più tutele per i lavoratori nei contesti produttivi minori ma solo in alcuni casi. Ad esempio, quando il fatturato è molto alto rispetto ai benchmark di mercato, quando è molto elevato il numero di collaboratori autonomi o parasubordinati a discapito della forza lavoro dipendente, quando tante piccole imprese, sotto la soglia dei quindici dipendenti, sono  riconducibili ad un unico centro di imputazione di interessi secondo un architettura a “scatole cinesi”.

In altre parole, il nanismo dimensionale se è un'acrobazia va corretto, se una necessità curato con strumenti di sostegno.  È questione di buon senso. Il rischio, altrimenti, è quello di nuovi lunghi pantani giudiziali.

Come affermava padre David Turoldo, non occorre desiderare il consenso, ma neanche provocare dissenso. Ciò che è necessario è solo la ricerca di un (buon) senso.

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a cura di

redazione Memento

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