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martedì 28/10/2025 • 06:00

Lavoro DALLA CASSAZIONE

Integrazione pensione: in caso di lavoro in più Paesi valgono solo contributi italiani

In caso di lavoro svolto da cittadino italiano in Italia e in altro Paese europeo, ai fini del calcolo dell'integrazione pensionistica ex art. 3, c. 15, L. 335/1995, rilevano i soli anni contributivi maturati in Italia: a dichiararlo è la Cassazione, con ordinanza 9 ottobre 2025 n. 27115.

di Elena Cannone - Avvocato

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Nel caso oggetto dell'ordinanza n. 27115 del 9 ottobre 2025 della Corte di Cassazione, l'INPS era stato condannato in primo grado al pagamento, in favore di una lavoratrice, dei ratei differenziali relativi al pro-rata italiano, quale parte integrante della pensione spettante ai sensi dell'art. 3 c. 15 L. 335/1995. Avverso tale decisione l'Ente proponeva ricorso in appello che veniva accolto.

La lavoratrice ricorreva in cassazione, deducendo che, ai fini del calcolo previsto da detta disposizione, l'anzianità contributiva rilevante doveva essere calcolata tenendo conto non solo degli anni di contribuzione maturati in Italia italiana, ma anche di quelli versati all'estero (nella specie, in Germania).

A suo avviso, essendo stato acquisito il diritto al trattamento pensionistico mediante “il cumulo” dei periodi assicurativi e contributivi maturati nei due Paesi, anche l'integrazione al minimo prevista dall'art. 3 c. 15 L. 335/1995 avrebbe dovuto essere determinata considerando l'anzianità complessiva, comprensiva delle contribuzioni estere. Al contrario, l'INPS deduceva che, ai fini del calcolo dell'integrazione del minimo, dovessero essere presi in considerazione solo gli anni di contribuzione maturati in Italia.

Normativa di riferimento

Ai sensi dell'art. 3 c. 15 L. 335/1995, “a decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge, l'importo mensile in pagamento delle pensioni, il cui diritto sia o sia stato acquisito in virtù del cumulo dei periodi assicurativi e contributivi previsto da accordi o convenzioni internazionali in materia di sicurezza sociale, non può essere inferiore, per ogni anno di contribuzione, ad un quarantesimo del trattamento minimo vigente alla data di entrata in vigore della presente legge, ovvero alla data di decorrenza della pensione stessa, se successiva a tale epoca. Il suddetto importo, per le anzianità contributive inferiori all'anno, non può essere inferiore a lire 6.000 mensili”.

La disposizione in esame riguarda la misura minima della pensione di vecchiaia - in particolare quella del solo pro-rata liquidabile dall'ente previdenziale italiano - nei casi in cui il diritto al trattamento pensionistico sia stato maturato totalizzando i contributi versati sia in Italia che all'estero. Essa stabilisce che tale misura minima non possa essere inferiore, per ciascun anno di contribuzione, a un 1/40 del trattamento pensionistico minimo vigente alla data di entrata in vigore della legge de quo.

La decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione, richiamando la sentenza n. 1662/2008, ha ribadito che il meccanismo del cumulo dei periodi assicurati esteri non comporta alcun trasferimento effettivo di contribuzione tra gli enti previdenziali né oneri a carico degli interessati. I contributi restano presso gli enti previdenziali cui sono stati versati, ma “virtualmente” vengono sommati ai fini del riconoscimento del diritto a pensione, così da evitare che il lavoratore “migrante” perda i propri diritti previdenziali a causa della frammentazione dei periodi contributivi.

Il cumulo, pertanto, rileva esclusivamente per la maturazione del diritto, mentre l'ammontare della prestazione resta determinato da ciascun ente previdenziale in misura corrispondente all'effettivo ammontare dei contributi di cui ha ricevuto il versamento, secondo il principio del pro-rata.

Secondo la Corte di Cassazione, le quote di pensione (pro-rata) italiana e straniera, una volta ricostruita l'anzianità contributiva, devono essere considerate separatamente. L'erogazione del pro-rata estero rileva ai fini dell'eventuale riassorbimento dell'integrazione al minimo del pro-rata italiano. Poiché ciascun ente previdenziale liquida la propria parte in base ai contributi versati nel rispettivo Stato, solo tali periodi incidono sul diritto all'integrazione ai minimi. Il lavoro riconosciuto all'estero, al massimo, potrà incidere nel senso di portare all'esclusione, nei casi normativamente previsti, della citata integrazione.

A sostegno di tale interpretazione, continua la Corte di Cassazione, è la lettera del citato art. 3 c. 15 L. 335/1995, laddove afferma che, se si tratta di anzianità inferiore all'anno, il trattamento minimo è di “lire 6.000 mensili”. Ciò conferma che è la stessa legge, ossia la legge italiana, a stabilire quale sia il trattamento minimo.

Bisogna tenere conto, d'altronde, che la predetta disposizione riguarda la quantificazione delle sole pensioni successive all'entrata in vigore della legge in questione, introduttiva del sistema di calcolo contributivo. Nell'ottica del legislatore, quindi, il riferimento è alla contribuzione maturata secondo la normativa italiana e ai criteri di calcolo propri del sistema contributivo nazionale, cui spetta la determinazione del trattamento minimo spettante.

Principio di diritto

In considerazione di quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso presentato dalla lavoratrice in applicazione del seguente principio di diritto: “In tema di prestazioni di lavoro svolte da cittadino italiano in Italia e in altro Stato dell'Unione europea, ai fini del calcolo dell'integrazione prevista dall'art. 3, comma 15, della legge n. 335 del 1995, rilevano i soli anni di contribuzione maturati in Italia e non quelli riconosciuti all'estero ”.

Fonte:   Cass. Ord. 27115 del 9 ottobre 2025

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