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lunedì 29/09/2025 • 06:00

Fisco DALLA CASSAZIONE

Società di comodo e prova contraria: limiti della disapplicazione antielusiva

Una società immobiliare può dimostrare in giudizio, senza interpello preventivo, le cause oggettive che giustificano il mancato raggiungimento dei ricavi minimi previsti per le società di comodo. La prova dev'essere oggettiva e documentata, ma l'interpello non è condizione necessaria (Cass. 24 settembre 2025 n. 25992).

di Andrea Carinci - Professore ordinario Università di Bologna e patrocinante in Cassazione

di Adriana Patumi - Dottoranda di ricerca in Scienze giuridiche presso Alma Mater Studiorum - Università di Bologna

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L'ordinanza della Cass. 24 settembre 2025 n. 25992 offre nuovi e importanti chiarimenti sui limiti e le possibilità di disapplicazione della disciplina antielusiva, segnando un punto di riferimento per operatori, consulenti e imprese.

Il contesto: accertamenti e ricorsi

La vicenda trae origine da due avvisi di accertamento notificati a una società immobiliare, con contestazione di maggiori ricavi ai fini IRES e IRAP per gli anni 2013 e 2014. L'Amministrazione finanziaria contestava un reddito imponibile di molto superiore rispetto a quanto dichiarato dalla società, applicando la disciplina delle società di comodo prevista dall'art. 30 L. 724/94. Secondo l'Agenzia delle Entrate, la società non aveva raggiunto i ricavi minimi presunti dalla normativa e, pertanto, doveva essere considerata “non operativa”, con conseguente applicazione delle penalità previste.

La società, ritenendo di essere incorsa in oggettive difficoltà indipendenti dalla propria volontà, aveva presentato ricorso davanti alla Commissione Tributaria Provinciale, invocando la disapplicazione della normativa antielusiva per la presenza di impedimenti oggettivi che avevano reso impossibile il conseguimento dei ricavi. Tuttavia, la CTP aveva respinto il ricorso, ritenendo non provata la sussistenza delle condizioni richieste dalla legge.

Con l'appello alla Commissione Tributaria Regionale, la società otteneva invece ragione: la CTR accoglieva l'istanza, riconoscendo la validità delle giustificazioni addotte dall'impresa circa la mancata produzione di reddito, e sancendo che la dimostrazione delle cause oggettive poteva essere fornita anche in giudizio, senza necessità di preventivo interpello.

Il ricorso in Cassazione e le questioni giuridiche

L'Agenzia delle Entrate proponeva ricorso per Cassazione, sostenendo l'erronea applicazione, da parte della CTR, della normativa di riferimento, con particolare riguardo alla dimostrazione delle “cause oggettive” che consentono la disapplicazione delle disposizioni sulle società di comodo. Secondo l'Agenzia, tale dimostrazione sarebbe dovuta avvenire obbligatoriamente in sede di interpello preventivo, e non solo in giudizio.

La questione problematica centrale riguardava, quindi, la natura e le modalità di assolvimento dell'onere probatorio: il contribuente che non raggiunge i ricavi presunti dalla legge deve necessariamente attivare un interpello disapplicativo prima dell'accertamento oppure può fornire la prova delle cause oggettive anche successivamente, in sede di contenzioso tributario?

Le motivazioni della Corte: la centralità della tutela giurisdizionale

La Corte di cassazione, con ampia e dettagliata motivazione, ha respinto la tesi dell'Amministrazione finanziaria. Secondo la Suprema Corte, infatti, il ricorso all'interpello disapplicativo non costituisce una condizione di procedibilità né una limitazione della tutela giurisdizionale del contribuente. La Corte ha sottolineato come i principi costituzionali del diritto alla difesa e del buon andamento dell'amministrazione siano posti a tutela del diritto del contribuente a contestare anche in giudizio gli atti impositivi, offrendo la prova delle cause oggettive di non operatività.

In particolare, la Corte ha ribadito che il contribuente può discostarsi dalla risposta negativa eventualmente ricevuta in sede di interpello, senza doverla necessariamente impugnare, potendo anche non attivare lo stesso: la prova può essere fornita direttamente nel giudizio contro l'atto impositivo, senza alcuna preclusione.

Società di comodo: natura della prova contraria

Uno dei passaggi chiave dell'ordinanza riguarda la natura della “prova contraria” richiesta al contribuente. La Corte ha precisato che tale prova non deve essere assoluta, ma che va valutata alla luce delle effettive condizioni di mercato. È onere del contribuente dimostrare, con elementi oggettivi indipendenti dalla propria volontà, che il mancato raggiungimento dei ricavi minimi è dipeso da fattori esterni, non imputabili a scelte gestionali o a inettitudine produttiva.

È stato escluso, infatti, che la semplice assenza di pianificazione aziendale o la totale inefficienza gestionale possano essere addotte come “cause oggettive” di non operatività; è invece necessario che il contribuente provi situazioni straordinarie, come difficoltà amministrative, crisi di mercato, impossibilità oggettiva di utilizzo degli immobili o altri eventi fuori dal proprio controllo.

Nel caso specifico, la società aveva depositato una perizia tecnica, documentando che gli immobili erano in condizioni fatiscenti e che vi erano difficoltà amministrative insormontabili per l'ottenimento delle autorizzazioni necessarie a realizzare le attività previste. Tali elementi, secondo la Corte, meriterebbero un approfondimento istruttorio, non potendo essere automaticamente esclusi dal novero delle cause oggettive.

Il ruolo del giudice e la nuova istruzione della causa

La Corte di cassazione, riscontrando un errore di diritto nella sentenza della CTR, ha accolto il ricorso dell'Agenzia delle Entrate, non negando però in radice la possibilità di disapplicazione: la sentenza è stata cassata con rinvio a una nuova valutazione di merito. Il giudice del rinvio dovrà approfondire l'esame delle prove offerte dalla società, verificando la reale sussistenza delle cause oggettive di non operatività secondo gli specifici criteri individuati dalla Cassazione.

Degna di nota è l'osservazione della Suprema Corte secondo cui il giudice non può entrare nel merito delle scelte imprenditoriali, dovendo limitarsi a valutare l'effettiva esistenza di impedimenti oggettivi, indipendenti dalla volontà della società, che abbiano reso impossibile il raggiungimento dei ricavi presunti.

Fonte: Cass. 24 settembre 2025 n. 25992

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