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martedì 22/07/2025 • 06:00

Mondo Digitale Eventi pubblici e kiss cam

Concerto Coldplay: scoperti i limiti del diritto alla privacy

La ripresa di una coppia in atteggiamento affettuoso mediante una kiss cam durante un concerto pubblico ha innescato un processo di giudizio collettivo istantaneo e di dimensioni globali. La vicenda dimostra quanto la soglia tra sfera privata e spazio pubblico si sia radicalmente ridotta e come la dignità personale possa essere compromessa se l'algoritmo è in grado di “fare il suo lavoro”. 

di Chiara Ciccia Romito - PhD - Avvocato - Consulente Commissione Parlamentare Inchiesta Condizioni di Lavoro

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  • Tempo di lettura 8 min.
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Nel corso di un concerto tenutosi a Boston nei giorni scorsi, nell'ambito del tour internazionale dei Coldplay, una coppia è stata inquadrata sullo schermo principale dell'evento, all'interno della consueta sequenza detta kiss cam. Tale prassi, diffusa negli Stati Uniti in contesti sportivi e musicali, consiste nell'inquadrare coppie di spettatori tra il pubblico, esortandole implicitamente a scambiarsi un gesto affettivo.   
La scena, apparentemente innocua, ha assunto rilievo pubblico quando la coppia – dapprima sorridente, poi evidentemente imbarazzata – è stata riconosciuta in rete come composta da due professionisti impiegati presso l'azienda statunitense Astronomer, operante nel settore dei dati e delle infrastrutture cloud. Si trattava, nello specifico, dell'amministratore delegato e della responsabile delle risorse umane, ripresi in un gesto affettuoso che, considerata la dinamica, ha assunto immediatamente i contorni di una relazione extraconiugale.

In USA, la kiss cam è generalmente ammessa all'interno degli eventi pubblici, e la relativa inquadratura viene ordinariamente ricondotta alla facoltà organizzativa dell'ente promotore. La legittimità del trattamento si rinviene nell'acquisto del titolo di accesso: nel momento dell'acquisto lo spettatore presta implicitamente il consenso all'eventuale utilizzo della propria immagine nell'ambito della manifestazione, nei limiti fisiologici della cornice dell'evento e secondo le finalità strettamente connesse allo spettacolo dal vivo.

Nel caso in esame, la ripresa ha acquisito rilevanza per effetto della condivisione online accompagnata da ulteriori dati quali la generalità, qualifica professionale e riferimenti familiari.  

L'effetto della gogna digitale si è prodotto con una rapidità che ha preceduto ogni forma di difesa dei due protagonisti, i quali sono stati oggetto di un processo mediatico capillare che ha avuto effetti anche sulla vita professionale.

Nel giro di qualche giorno, l'azienda “galeotta” ha reso noto che, a seguito della diffusione delle immagini, l'amministratore delegato ha rassegnato le dimissioni e la condotta della responsabile delle risorse umane è oggetto di indagine ai fini di una sospensione cautelativa. Le ragioni sono da rintracciarsi nell'effetto mediatico della vicenda, che ha inciso, seppure in forma indiretta, sull'immagine complessiva dell'organizzazione. L'intervento datoriale appare riconducibile a una strategia di contenimento reputazionale, adottata in funzione della percezione esterna generata dalla diffusione del contenuto. In questo schema, la visibilità del fatto potrebbe costituire di per sé un elemento sufficiente (nel diritto statunitense) per attivare una reazione aziendale, a prescindere dal processo ricostruttivo interno.

In Italia, una decisione analoga risulterebbe difficilmente compatibile con il quadro normativo, infatti, l'articolo 8 dello Statuto dei lavoratori esclude la possibilità per il datore di lavoro di prendere provvedimenti sanzionatori su elementi riconducibili alla vita privata del dipendente.

Sul piano della disciplina dell'immagine, l'art. 10 c.c. e gli artt. 96 e 97 L. 633/41 riconducono il ritratto della persona alla sfera della personalità e condizionano la liceità della sua diffusione al consenso dell'interessato. L'art. 97 ammette eccezioni in presenza di eventi pubblici o soggetti notori, ma esclude ogni utilizzo che possa pregiudicare l'onore, il decoro o la reputazione della persona ritratta. A tale corpus si affianca la normativa in materia di protezione dei dati personali, oggi rappresentata dal Reg. UE 2016/679 (GDPR) e dal D.Lgs. 196/2003, come modificato dal D.Lgs. 101/2018. L'immagine, laddove riconducibile a un soggetto identificato o identificabile, costituisce dato personale ai sensi dell'art. 4 par. 1 GDPR, e ogni trattamento — compresa la diffusione — richiede una base giuridica valida e il rispetto dei principi sanciti dall'art. 5 del Regolamento, tra i quali la liceità e la correttezza.

La giurisprudenza di legittimità ha tracciato una linea interpretativa coerente nel tempo. Le Sezioni Unite, con la storica sentenza n. 2129 del 27 maggio 1975 (cd. caso Soraya), hanno affermato che l'immagine della persona rappresenta un elemento costitutivo dell'identità individuale, meritevole di tutela anche quando la ripresa avviene in luogo pubblico. A tale principio si sono successivamente collegate altre pronunce che hanno escluso la liceità della diffusione dell'immagine per finalità giornalistiche in assenza di un interesse pubblico attuale.

L'episodio avvenuto a Boston si inserisce all'interno di un sistema giuridico che non presenta una disciplina costituzionalmente orientata alla riservatezza. La protezione dei profili riferibili alla sfera privata si è sviluppata per via dottrinale e giurisprudenziale, a partire dal contributo seminale di Samuel D. Warren e Louis D. Brandeis, pubblicato nel 1890 sulla Harvard Law Review.
Il saggio, unanimemente indicato come punto d'avvio della moderna elaborazione sul diritto alla privacy, trasse origine da una vicenda personale: Warren, appartenente a un ambiente sociale esposto all'attenzione mediatica, reagì all'intromissione della stampa nella vita familiare. Gli studiosi tradussero quella inquietudine in una costruzione giuridica autonoma, che ha orientato l'evoluzione successiva della tutela della personalità.

Nella prassi contemporanea, la disciplina dell'immagine altrui si articola nell'ambito della tort law, attraverso categorie quali intrusion upon seclusion, public disclosure of private facts, false light e appropriation of likeness. Il ricorso alla tutela giudiziaria postula la presenza di un pregiudizio attuale, riferibile a un interesse meritevole. Nei contesti pubblici, la ripresa e la diffusione dell'immagine rientrano di regola nell'area della visibilità consentita, in quanto effetti prevedibili della partecipazione volontaria a eventi pubblici o aperti al pubblico.

In tale quadro, la decisione dell'impresa statunitense di procedere con misure organizzative nei confronti dei soggetti coinvolti si colloca pienamente nella disponibilità gestionale dell'ente, in assenza di vincoli normativi specifici.     
Il confronto con l'ordinamento europeo permette di cogliere una diversa impostazione, in cui la persona viene tutelata anche nella dimensione relazionale.

Tuttavia, la diversità degli strumenti non neutralizza il dato di fatto che emerge da questa incredibile storia: il video condiviso senza controllo ha generato un'esposizione lesiva che precede ogni possibile reazione normativa.      
È qui che si svela la vera problematica: il valore della privacy, nel caso Coldplay, appare secondario rispetto alla perdita di controllo da parte dei soggetti ripresi. La questione non riguarda la visibilità in sé, bensì la possibilità per ciascuno di decidere se e come essere raccontato. Il diritto, in tutto ciò, sembra retrocedere. Si assesta in uno spazio reattivo, costretto a inseguire una lesione già realizzata, spesso in forma simbolica, talvolta in misura irreparabile.

Già prima della diffusione delle piattaforme digitali e del successo degli algoritmi nella selezione e moltiplicazione automatica dei contenuti, Rodotà aveva colto la possibilità che la persona venisse privata del controllo simbolico su di sé.         
Non il dato in sé, ma il potere di attribuirgli significato. L'immagine, una volta sottratta alla volontà, diventa racconto sociale, e il soggetto, pur formalmente visibile, non dispone più della propria rappresentazione. Quanto accaduto a Boston ne è la conferma.

Sarà il caso di domandarsi se costituisca mera coincidenza il fatto che, proprio a Boston — città in cui, nel 1890, prese forma la prima teorizzazione del right to privacy— si sia verificato un episodio che, a oltre un secolo di distanza, riattiva interrogativi analoghi, anche se in un contesto diverso.

Oppure si tratti di un segnale. Un segnale che sollecita una riflessione sul diritto di avere diritti, come scriveva Rodotà, e sulla necessità di una coscienza comune che consideri per davvero il valore della nostra privacy.

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