venerdì 13/06/2025 • 06:00
Integrano giusta causa di licenziamento le molestie sessuali sul luogo di lavoro, anche in assenza di precedenti disciplinari, quando esse ledono la dignità della persona offesa e si pone in contrasto con i valori costituzionali, la normativa antidiscriminatoria e le disposizioni interne aziendali: a dichiararlo è la Cassazione nell'ordinanza 22 maggio 2025 n. 13748.
Nel caso oggetto dell'ordinanza della Corte di Cassazione n. 13748 del 22 maggio 2025, una società aveva avviato un procedimento disciplinare nei confronti di una propria dipendente rea di:
All'esito del procedimento disciplinare, la lavoratrice veniva licenziata per giusta causa; provvedimento che la stessa impugnava giudizialmente.
Il Tribunale adito rigettava il ricorso presentato dalla lavoratrice, ritenendo che i fatti addebitati erano idonei a ledere il vincolo fiduciario ed il provvedimento proporzionato. Ciò in quanto la lavoratrice aveva assunto una condotta in violazione del codice di condotta e delle regole civile, “anche tenuto conto del fatto che ai sensi dell'art. 2087 c.c. il datore di lavoro è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa tutte le misure necessarie a tutelare non solo l'integrità fisica, ma anche la personalità morale dei dipendenti”.
La Corte distrettuale - in parziale riforma della pronuncia di primo grado e, pur ritenendo provate nella loro materialità due delle tre condotte contestate - dichiarava illegittimo il licenziamento e, per l'effetto, condannava la società a pagare alla lavoratrice un'indennità risarcitoria pari a 12 mensilità, oltre ad interessi e rivalutazioni dal dì del licenziamento al saldo.
Ad avviso dei giudici di merito “il datore di lavoro, in considerazione della mancanza di procedimenti disciplinari precedenti” a carico della lavoratrice e “di significativi effetti dannosi per l'organizzazione aziendale, avrebbe ben potuto (e dovuto) graduare la risposta disciplinare, adottando sanzioni di maggiore e progressiva gravità, prima di giungere al licenziamento in tronco”.
Avverso la pronuncia di secondo grado la società ricorreva in cassazione.
Nozione di giusta causa
Nell'ordinanza in commento, la Corte di Cassazione adita osserva che per consolidata giurisprudenza di legittimità la “giusta causa” di licenziamento ex art. 2119 c.c. costituisce una clausola generale che necessita di essere concretizzata dall'interprete.
Per valutare se ricorre una giusta causa di licenziamento e se è stata rispettata la regola codicistica della proporzionalità, è necessario accertare in concreto se — tenuto conto della natura del rapporto tra le parti, della posizione ricoperta dal lavoratore e, quindi, della qualità e dell'intensità del vincolo fiduciario specifico che ne deriva — la condotta contestata sia tale da far venir meno la fiducia del datore di lavoro. Tale valutazione richiede un esame complessivo che tenga conto non solo del contenuto oggettivo dell'infrazione, ma anche della sua portata soggettiva, specie con riferimento alle circostanze e alle condizioni in cui è stata posta in essere, alle modalità con cui si è manifestata, ai suoi effetti e all'intensità dell'elemento psicologico dell'agente.
Nel caso di specie, ad avviso della Corte di Cassazione, i giudici di merito hanno omesso di considerare, in modo adeguato, le modalità oggettive e soggettive della condotta contestata e non hanno valutato se essa abbia effettivamente inciso sul regolare svolgimento delle dinamiche lavorative.
Tutela contro le molestie
Inoltre, secondo la Corte di Cassazione, la condotta della lavoratrice è stata ricondotta ad un “mero comportamento” rilevante “sul piano disciplinare”, valutato in base alla sola assenza di precedenti disciplinari e alla mancanza di significativi effetti dannosi per l'organizzazione aziendale, senza, tuttavia, operare un raffronto con valori di maggiore rilevanza etico-sociale, consolidatisi nella coscienza collettiva e riconducibili a principi generali dell'ordinamento.
È innegabile che l'evoluzione della società negli ultimi decenni abbia portato a una più profonda consapevolezza dell'illiceità e della gravità di ogni intrusione nella sfera intima e riservata della persona (cfr. Cass. n. 7029/2023 e Cass. n. 12746/2024). Tali condotte, specie se attuate con modalità insistenti, persistenti e in presenza di terzi, devono essere valutate alla luce dei principi fondamentali sanciti dalla Costituzione: la tutela dei diritti inviolabili dell'uomo (art. 2), la pari dignità sociale senza distinzione di sesso e il pieno sviluppo della persona (art. 3), il lavoro come strumento di espressione della personalità (art. 4), e la tutela del lavoro in tutte le sue forme e applicazioni (art. 35).
Questo impianto costituzionale ha poi trovato puntuale specificazione attraverso normative antidiscriminatorie, dirette a prevenire e reprimere comportamenti lesivi fondati sul sesso o su altre condizioni personali. Basti pensare all'art. 26 del D.Lgs n. 198/2006 (cd. Codice delle pari opportunità) che:
Tali disposizioni assumono particolare rilevanza nel caso di specie, in quanto espressione della volontà del legislatore di perseguire due obiettivi distinti ma complementari: da un lato, assicurare una tutela specifica e rafforzata – mediante l'assimilazione di tali condotte alla fattispecie della discriminazione – a favore di coloro che, nel contesto del rapporto di lavoro, siano destinatari di comportamenti indesiderati riconducibili a motivi legati al sesso; dall'altro, intensificare gli obblighi di vigilanza e intervento gravanti sul datore di lavoro rispetto a condotte poste in essere dai propri dipendenti che risultino in contrasto con i principi fondamentali dell'ordinamento.
Sul punto l'art. 26 della Dir. CE 54/2006 dispone che “Gli Stati membri incoraggiano (…) i datori di lavoro (…) a prendere misure efficaci per prevenire tutte le forme di discriminazione sessuale e, in particolare, le molestie e le molestie sessuali nel luogo di lavoro, nell'accesso al lavoro nonché alla formazione e alla promozione professionali come pure nelle condizioni di lavoro”
E proprio in applicazione di detta direttiva, il protocollo 5 allegato al CCNL calzaturifici, applicabile al rapporto di lavoro del caso in esame, dispone che “Le parti concordano sull'opportunità che il rapporto di lavoro si svolga in un clima aziendale idoneo allo svolgimento dell'attività. A tal fine dovrà essere assicurato il rispetto della dignità della persona in ogni suo aspetto compreso quanto attiene alla condizione sessuale e dovrà essere prevenuto ogni comportamento improprio, compiuto attraverso atti, parole, gesti, scritti che arrechino offesa alla personalità e all'integrità psico-fisica della lavoratrice e del lavoratore. In particolare, saranno evitati comportamenti discriminatori che determinino una situazione di disagio della persona cui sono rivolti, anche con riferimento alle conseguenze sulle condizioni di lavoro. In caso di molestie sessuali nel luogo di lavoro, la R.S.U. o le Organizzazioni sindacali e la Direzione aziendale opereranno per ripristinare le normali condizioni lavorative garantendo la massima riservatezza alle persone coinvolte”.
È, dunque, evidente che le molestie sessuali sul luogo di lavoro, incidendo negativamente sulla salute e sull'equilibrio psico-fisico – anche in ambito professionale – del lavoratore, impongono al datore di lavoro un obbligo di tutela ex art. 2087 c.c., legittimando così il licenziamento del dipendente responsabile di condotte moleste a sfondo sessuale nei confronti di un collega.
Peraltro, la condotta della lavoratrice ha violato il Codice di Condotta laddove prevede che la società mantiene “relazioni basate sul rispetto e la fiducia reciproci e si sforza di creare un ambiente di lavoro che non lasci spazio a discriminazioni, molestie (sessuali o morali), intimidazioni e sessismo”. A ciò aggiungasi che ai sensi del regolamento aziendale “Saranno oggetto di contestazione disciplinare tutte le infrazioni al CCNL ed al presente Regolamento ed in particolare (…) b) Disonestà, violenza, insulti a colleghi o al pubblico, condotta immorale in servizio..”
Conclusioni
Orbene, ad avviso della Corte di Cassazione, i giudici di merito non hanno tenuto conto di detti elementi al fine di definire la scala valoriale di riferimento nell'integrazione della norma elastica della “giusta causa” di licenziamento.
La Corte di Cassazione conclude così per l'accoglimento del ricorso presentato dalla società, la cassazione della sentenza impugnata ed il rinvio al Corte d'appello in diversa composizione che procederà ad un nuovo esame della fattispecie. Ciò al fine di verificare la sussistenza della giusta causa di licenziamento alla luce della corretta scala valoriale di riferimento.
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Marco Micaroni
- Responsabile Relazioni Industriali di Autostrade per l'Italia s.p.a.Rimani aggiornato sulle ultime notizie di fisco, lavoro, contabilità, impresa, finanziamenti, professioni e innovazione
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