giovedì 12/06/2025 • 06:00
Ai fini della presunzione di distribuzione della ricchezza derivante da costi neri e ricavi non dichiarati, la Cassazione ha ricordato che la ristretta compagine sociale sussiste anche nel caso di soci-persone giuridiche (Cass. 9 giugno 2025 n. 15274).
Costi neri e ricavi non dichiarati da società di capitali a ristretta compagine partecipativa
La Suprema Corte di Cassazione, con ordinanza del 9 giugno 2025 n. 15274, ha ribadito ancora una volta il proprio costante orientamento in materia di costi neri e di ricavi non dichiarati da società di capitali a ristretta compagine partecipativa, i quali vengono pacificamente considerati, dalla giurisprudenza di merito così come da quella di legittimità, alla stregua di utili occultamente percepiti dai soci. Nelle ipotesi menzionate, infatti, è stata elaborata una nota presunzione semplice di matrice giurisprudenziale, tale per cui da una limitata base sociale deriverebbe un rapporto di solidarietà e connivenza tra i soci, determinando per gli stessi la facile apprensione della ricchezza prodotta anche in assenza di delibere formali.
Ebbene, la Cassazione ha specificamente e nuovamente chiarito come, ai fini dell'operatività di tale schema, non sia rilevante né che le persone fisiche partecipino alla società accertata solamente in via mediata (ossia costituendo la compagine sociale non di quest'ultima, bensì delle persone giuridiche che ne fanno direttamente parte), trattandosi di un dato meramente formale che non investirebbe la sostanzialità del fenomeno economico, né che la componente di reddito recuperata a tassazione riguardi un costo illegittimamente dedotto.
La pronuncia in commento trae origine da alcuni ricorsi, i quali, a fronte di un accertamento dell'Agenzia delle Entrate, lamentavano l'insussistenza dei presupposti richiesti dalla legge ai fini dell'operatività della presunzione sopra menzionata, che era stata invece applicata dagli uffici alla compagine sociale di una s.p.a., la quale si articolava in due sole società, una di persone e l'altra di capitali, a loro volta partecipate dai membri di una medesima famiglia.
I contribuenti, in particolare, censuravano sul versante soggettivo la riconduzione nella categoria delle società a ristretta base sociale di una s.p.a. non direttamente composta da un numero esiguo di persone fisiche; dal punto di vista oggettivo, inoltre, contestavano come l'atto impugnato non recasse alcun accertamento di utili extra-bilancio, ma la sola contestazione dei presupposti per dedurre a fini fiscali dei costi la cui contabilizzazione era pacifica.
Per quanto riguarda il primo aspetto, ossia quello di tipo soggettivo, la Cassazione ha richiamato la propria giurisprudenza consolidata in materia, tale per cui la presunzione di riparto non deve affatto considerarsi neutralizzata dallo schermo della personalità giuridica. In ossequio al principio generale del divieto di abuso del diritto, infatti, ad essere rilevante sarebbe unicamente la sostanza del fenomeno economico sotteso alle forme giuridiche utilizzate, ragione per cui le società partecipanti ben potrebbero rivelarsi dei meri schermi rispetto alle persone fisiche che le compongono e, in quanto tali, validi civilisticamente, ma non opponibili all'Amministrazione finanziaria, senza che ciò si ponga in contrasto con il divieto di presunzione di secondo grado. La posizione assunta dalla Cassazione non stupisce, ma può prestarsi a forzature. Affinché la base partecipativa possa considerarsi ristretta, infatti, l'esiguo numero dei soci non dovrebbe avere una valenza meramente quantitativa, ma dovrebbe sempre tradursi nel dato qualitativo della complicità tra partecipanti, elemento mai del tutto valorizzato in giurisprudenza.
Per quanto riguarda il secondo aspetto, ossia quello di tipo oggettivo, la Suprema Corte ha ritenuto destituita di fondamento l'affermazione tale per cui la presunzione sarebbe invocabile solo per gli utili extrabilancio, non anche per operazioni economiche passive risultanti dalle scritture contabili. La Cassazione, infatti, ha evidenziato come la stessa operi non solo per le componenti positive di reddito accertate, ma anche per le componenti negative disconosciute, in quanto quest'ultime farebbero emergere la presenza di maggiori risorse non dichiarate e (presuntivamente) distribuite tra i soci.
Secondo la Suprema Corte, la statuizione da ultimo riportata si giustificherebbe sul piano logico sull'assunto che un costo non adeguatamente documentato equivarrebbe ad una componente negativa di reddito che non sarebbe stata sostenuta (e come tale una maggiore disponibilità di risorse).
Osservazioni
Una simile visione, però, risulta quantomai miope rispetto alle possibilità esistenti in materia di componenti negative di reddito illegittimamente esposte, poiché non considera la differenza tra costi inesistenti e costi che, seppur realmente sostenuti, non sono deducibili. In rapporto a quest'ultimi, infatti, è evidente come ci si trovi in difetto di una provvista di ricchezza materialmente apprensibile dai soci, avendo la società partecipata, al contrario, sostenuto un'uscita di cassa; se la distribuzione occulta di denaro rappresenta proprio il fatto ignoto da provare in via induttiva, non si vede come l'assenza di una ricchezza occultata possa conciliarsi sul piano logico con la presunzione di matrice giurisprudenziale in commento.
Fonte: Cass. 9 giugno 2025 n. 15274
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Francesco Verderosa
- Dottore Commercialista, Tributarista, PubblicistaRimani aggiornato sulle ultime notizie di fisco, lavoro, contabilità, impresa, finanziamenti, professioni e innovazione
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