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mercoledì 28/05/2025 • 06:00

Lavoro DALLA CASSAZIONE

Critiche all'amministrazione: ecco quando è illegittimo il licenziamento del lavoratore

La Corte di Cassazione, con l'ordinanza 24 aprile 2025 n. 10864, ha dichiarato illegittimo il licenziamento per giusta causa intimato ad un dipendente che, nel rispetto dei parametri di verità, continenza e pertinenza, ha esercitato il diritto di critica nei confronti dell'amministratore delegato della società datrice di lavoro.

di Elena Cannone - Avvocato

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  • Tempo di lettura 2 min.
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Una società azionava nei confronti di un proprio dipendente un procedimento ex art. 7 L. 300/1970 per aver utilizzato espressioni “reputate di rilievo disciplinare” nella corrispondenza e-mail intercorsa con l'amministratore delegato. All'esito del procedimento il dipendente veniva licenziato per giusta causa.

In particolare, nel novembre 2021, vi era stato tra il lavoratore e l'amministratore delegato uno scambio di comunicazioni in merito alle modalità di partecipazione a una riunione convocata da quest'ultimo per discutere di alcune problematiche aziendali. Il lavoratore si era opposto alla decisione dell'amministratore delegato di tenere la riunione in presenza alla luce della perdurante esigenza di attenersi ai protocolli di difesa anti-Covid. Lo stesso aveva, altresì, inviato apposita segnalazione ai componenti del comitato Covid – previsto dal codice etico adottato in azienda - e al presidente del consiglio di amministrazione

Il lavoratore impugnava giudizialmente il provvedimento espulsivo. La Corte distrettuale, in linea con il Tribunale, pur escludendo qualsiasi intento ritorsivo da parte della datrice di lavoro, dichiarava illegittimo il licenziamento intimato, disponendone l'annullamento e la corresponsione in favore del lavoratore di una indennità risarcitoria pari a 20 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, con parziale compensazione delle spese.

Il lavoratore decideva così di ricorrere in cassazione.

Le argomentazioni della Cassazione

La Corte di Cassazione, nel formulare la decisione, ha ritenuto opportuno richiamare la giurisprudenza in tema di diritto di critica e tutela del segnalante (c.d. whistleblower ).

a) Diritto di critica

Il diritto di critica è garantito dall'art. 21 della Costituzione, che riconosce a tutti il diritto di esprimere liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione, e dall'art. 10 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo (CEDU) che ribadisce la libertà d'espressione. Anche l'art. 11 della Carta dei Diritti Fondamentale dell'Unione Europea (CDFUE) riconosce ad ogni persona la libertà di espressione, ivi inclusa quella di opinione e comunicazione. E l'art. 1 dello Statuto dei lavoratori riafferma il diritto dei lavoratori di manifestare liberamente il proprio pensiero nei luoghi di lavoro e la necessità di contemperare questa libertà con il rispetto dei principi della Costituzione e delle norme dello Statuto stesso.

In sostanza, il diritto di critica consiste nell'esprimere un giudizio o un'opinione, spesso negativi, frutto di un'interpretazione soggettiva e personale di fatti e comportamenti che possono implicare un potenziale pregiudizio per l'onore e la reputazione del destinatario. Tuttavia, negarlo ogni qualvolta leda, sia pur in modo minimo, la reputazione altrui, significherebbe negare il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero.

È, quindi, necessario un bilanciamento tra il diritto di critica e quello, di pari rilevanza costituzionale, all'onore e alla reputazione che la giurisprudenza realizza attraverso la continenza formale, la veridicità dei fatti, e la pertinenza.

b) Continenza formale e veridicità dei fatti

La continenza formale richiede che la critica debba avvenire nel rispetto dei canoni di correttezza, misura e rispetto della dignità altrui. Sono ammesse espressioni di qualsiasi tipo purché siano strumentalmente collegate alla manifestazione di un dissenso ragionato e non si traducano in un'aggressione gratuita e distruttiva dell'onore e della reputazione del destinatario (cfr. Cass. 12420/2008; Cass. 1434/2015; Cass. 12522/2016). L'offesa viene considerata “gratuita” quando non è in alcun modo collegata e funzionale allo scopo per cui la critica è mossa.

In ambito lavorativo è stato affermato che il limite di continenza espressiva può dirsi “esemplificativamente superato ove si attribuiscano all'impresa datoriale od ai suoi rappresentanti qualità apertamente disonorevoli, con riferimenti volgari e infamanti e tali da suscitare disprezzo e dileggio, ovvero si rendano affermazioni ingiuriose e denigratorie, con l'addebito di condotte riprovevoli o moralmente censurabili, se non addirittura integranti gli estremi di un reato, oppure anche ove la manifestazione di pensiero trasmodi in attacchi puramente offensivi della persona presa di mira”.

La continenza sostanziale richiede che, quando la critica consista in un giudizio di fatti o condotte ascritti alla persona destinataria, essi siano veri o ritenuti tali in buona fede (cfr. Cass. n. 7847/2011; Cass. 25420/2017; Cass. 38215/2021).

c) Pertinenza

Passando alla pertinenza, la critica deve rispondere ad un interesse meritevole di tutela. Nel rapporto di lavoro sono pertinenti, ad esempio, le rivendicazioni di carattere sindacale o le manifestazioni di opinione attinenti al contratto di lavoro, mentre non lo sono le critiche rivolte al datore di lavoro oggettivamente avulse da ogni correlazione con il rapporto contrattuale e gratuitamente mirate a ledere la sua onorabilità.

La decisione

Nel caso in esame, sottolinea la Corte di Cassazione, la sentenza impugnata non ha valutato il contenuto della critica in relazione alla gestione delle modalità di svolgimento dell'attività lavorativa né ha esaminato i profili di pertinenza e continenza ad essa connessi. Essa si è limitata a far riferimento ad un generico, quanto immotivato, “indebito abuso critico rivolto ad una figura di forte rilievo aziendale”.

Partendo dall'appurata verità dei fatti e dall'assenza di gratuite espressioni di diniego, la Corte distrettuale - secondo la Corte di Cassazione - avrebbe dovuto svolgere una più attenta analisi finalizzata a stabilire se le comunicazioni, integralmente allegate dal lavoratore, fossero espressione di un dissenso motivato e legato a una reale preoccupazione per la gestione della sicurezza aziendale o se, invece, celassero un'offesa avente l'unico fine di colpire, in modo gratuito e non circostanziato, l'operato dell'Amministrato delegato.

In questo contesto, la Corte di Cassazione osserva che il contenuto della segnalazione indirizzata al comitato Covid e volta a sollecitare la verifica circa il corretto controllo e rispetto delle relative procedure da parte dell'amministratore delegato, unitamente ai documenti allegati e alle circostanze accertate, conducono ad una necessaria tutela del lavoratore (“whistleblower”), alla luce della normativa vigente e dell'orientamento della giurisprudenza di legittimità.

Per tutto quanto fin qui esposto, la Corte di Cassazione dichiara insussistente il fatto addebito al lavoratore, cassa la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d'appello in diversa composizione, ordinando che il licenziamento vada sanzionato con la tutela reintegratoria di cui all'art. 18 c. 4 Statuto dei Lavoratori.

Fonte: Ord. Cass. 10864 del 24 aprile 2025

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