lunedì 14/04/2025 • 06:00
Una delle nuove sfide che il mondo delle gare pubbliche sta iniziando ad affrontare è quella relativa all'individuazione del contratto collettivo “leader” a cura delle stazioni appaltanti (ex D.Lgs 36/2023) il quale dovrà disciplinare i rapporti di lavoro nell'esecuzione di quel servizio oggetto di appalto. Circostanza tutt'altro che semplice, in relazione alle disposizioni di cui all'art. 11 del Codice degli appalti.
L'art. 11 del codice degli appalti consente, in ogni caso, l'indicazione di un differente contratto collettivo a patto che vi sia una equivalenza di tutele, economiche e normative, rispetto a quello benedetto dalla committenza.
Non ce ne voglia nessuno ma Piercamillo Davigo, trattando la spinosa questione del codice degli appalti, soleva ricordare come “crea un sacco di problemi alle imprese per bene e non serve alle imprese per male che le regole, non importa quali, non le seguono”.
Vediamo se aveva ragione.
Codice dei contratti pubblici
L'art. 11 del codice dei contratti pubblici (D. Lgs. 36/2023), rubricato “Principio di applicazione dei contratti collettivi nazionali di settore. Inadempienze contributive e ritardo nei pagamenti” ha previsto che “al personale impiegato nei lavori, servizi e forniture oggetto di appalti pubblici e concessioni è applicato il contratto collettivo nazionale e territoriale in vigore per il settore e per la zona nella quale si eseguono le prestazioni di lavoro, stipulato dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e quello il cui ambito di applicazione sia strettamente connesso con l'attività oggetto dell'appalto o della concessione svolta dall'impresa anche in maniera prevalente”.
Spetta quindi alle stazioni appaltanti individuare ed indicare “il contratto collettivo applicabile al personale dipendente impiegato nell'attività oggetto dell'appalto o della concessione svolta dall'impresa anche in maniera prevalente”.
La ratio di tale disposizione nasceva come una risposta alle richieste (insistenti) delle organizzazioni sindacali di garantire non solo l'applicazione di un CCNL sottoscritto da quelle più rappresentative, ma dello specifico contratto collettivo “strettamente connesso con l'attività oggetto dell'appalto”.
Peccato che in un mondo in cui la proliferazione di contrattazione collettiva (sia chiaro, anche o soprattutto quella ex art. 51 D.Lgs 81/2015, quindi non “pirata”) abbonda, la scelta del contratto “leader” appare davvero complessa.
Ma che ne è della libertà dell'imprenditore di applicare un contratto collettivo (maggiormente rappresentativo)? A quanto pare se si vuole partecipare ad una gara di appalto pubblico, tale libertà è concessa allorquando, rispetto alla contrattazione identificata dalla stazione appaltante, l'impresa può dichiarare l'esistenza di una equivalenza di condizioni economiche e normative del proprio CCNL.
Circostanza che, anche solo astrattamente, appare estremamente complessa e probabilmente inutile.
La posizione dell'ANAC
Di recente, con la delibera n. 75 del 3 marzo 2025, l'Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC) è intervenuta su un'istanza di parere riguardante, per l'appunto, la corretta individuazione del contratto collettivo applicabile ad una gara relativa al servizio di trasporto sanitario secondario, affermando che “la ratio che sorregge gli obblighi normativamente imposti dall'art. 11 del Codice, tanto sulla Stazione appaltante (individuazione negli atti di gara del CCNL applicabile) quanto sull'operatore economico (dimostrazione, in caso di applicazione di un diverso CCNL, che siano garantite tutele normative ed economiche equivalenti) è da ricercarsi nella duplice volontà del legislatore di apprestare un'adeguata tutela ai lavoratori impiegati nell'appalto e di garantire la corretta esecuzione della commessa”. Ciò in quanto “la corretta applicazione dei contratti collettivi conformemente alle rispettive sfere di applicabilità costituisce condizione imprescindibile per il regolare funzionamento del mercato del lavoro e per il dispiegarsi di una leale concorrenza tra imprese (cfr. Cons. Stato 4 maggio 2020 n. 2829), in quanto finalizzata a garantire sia che il personale impiegato venga adeguatamente tutelato per la parte giuridica e per quella economica, sia che le prestazioni oggetto della commessa siano correttamente eseguite attraverso una vincolante connessione funzionale delle stesse con i profili professionali più appropriati (cfr. Cons. Stato 25 febbraio 2020 n. 1406) (Tar Campania 7 marzo 2023 n. 1488)”.
Pur comprendendo i buoni propositi che muovono l'ANAC, non si comprende come l'individuazione di uno specifico contratto collettivo consenta la corretta esecuzione delle prestazioni dedotte in una gara d'appalto, essendovi diverse professionalità che possono astrattamente essere ricondotte alle figure professionali riportate nella declaratoria di diversi contratti collettivi. Si pensi, ad esempio, alla mansione di autista addetto al trasporto pasti in un appalto pubblico, la cui disciplina giuridica potrebbe rinvenirsi – a seconda della visuale che si assume – nel CCNL della ristorazione collettiva, nel CCNL multiservizi e nel CCNL merci e logistica. In questo caso, seguendo il ragionamento dell'ANAC, dovrebbe applicarsi il contratto collettivo merci logistica se si vuole tutelare la “parte economica” dei rapporti di lavoro, ovvero in quello della ristorazione collettiva se si dovesse guardare alla prestazione caratterizzante dedotta nel contratto.
Ad ogni buon conto, la stessa volontà del legislatore di indicare un preciso e determinato contratto collettivo, senza possibilità di deroghe, mal si concilia con il principio di libera iniziativa economica privata il cui fondamento e tutela non lo si rinviene solo e soltanto nella Carta Costituzionale, ma anche nei principi dell'Unione Europea.
Per tale ragione, al c. 3 dell'art. 11 citato è stato previsto che “gli operatori economici possono indicare nella propria offerta il differente contratto collettivo da essi applicato, purché garantisca ai dipendenti le stesse tutele di quello indicato dalla stazione appaltante o dall'ente concedente”. La decisione di applicare un diverso contratto collettivo deve essere supportata da una dichiarazione di equivalenza, da verificarsi con le modalità che lo stesso codice indica.
A parere di chi scrive si tratta di un concetto assolutamente ipocrita, per non dire buonista, figlio della volontà di non intervenire sulle retribuzioni dei lavoratori che operano in ambito di appalti di lavori, servizi e forniture. Concetto che, da un punto di vista morale, può anche comprendersi ma che, per avere un valore giuridico suscettibile di tutela, deve avere un fondamento in una norma di legge e/o di contratto collettivo.
Partiamo da un presupposto indefettibile: due contratti collettivi non saranno mai identici e le tutele che gli stessi possono offrire non saranno mai equivalenti, ma ciò non significa necessariamente che uno sia migliore o peggiore dell'altro. Banalmente il contratto collettivo ha caratteristiche di identità del settore che intende disciplinare e previsioni neutre come la durata del patto di prova o del preavviso, pur concedendo disposizioni differenti, non necessariamente stabiliscono tutele diverse o “minori”.
Se per equivalenza tra contratti collettivi si intende uguaglianza, qualsiasi dichiarazione faccia un privato datore di lavoro che voglia discostarsi del CCNL indicato dalla stazione appaltante per applicarne un altro, potrebbe essere non vera.
Anche facendo riferimento agli elementi che sono stati indicati dall'Ispettorato Nazionale del Lavoro nella circolare del 28 luglio 2020 oppure dall'ANAC nella delibera n. 14 del 14 gennaio 2025, si può – con una probabilità vicina alla certezza – affermare che non è possibile trovare due contratti collettivi equivalenti.
Entrambi gli enti sopra citati, senza specificare l'obiettivo ultimo sotteso alle proprie decisioni, hanno ritenuto che la valutazione di equivalenza debba essere condotta, da parte della stazione appaltante che riceve la dichiarazione dall'operatore economico, su due piani:
Proprio qui sta il problema. Se un contratto collettivo prevede, a differenza di quello indicato dalla stazione appaltante, un comporto più breve, ma un trattamento retributivo della malattia più elevato, come verrà valutata questa evidente “non equivalenza”?
Qualche esempio concreto
Pensiamo alla disciplina giuridica della malattia del CCNL merci e logistica e a quella prevista nel CCNL multiservizi: nel primo, il trattamento economico della malattia e la durata del comporto si differenziano a seconda dell'anzianità di servizio (minore o maggiore di 5 anni), nel secondo la retribuzione viene integrata al 100% sin dal primo giorno e sia l'integrazione economica, che la durata del periodo massimo di conservazione del posto di lavoro prescindono dall'anzianità. Così come il primo prevede un decalage della parte economica a partire dal quinto evento morboso avvenuto a ridosso di un periodo di riposo, mentre il secondo non conosce differenziazioni di sorta in punto di trattamento economico.
Possono dirsi questi due contratti collettivi equivalenti? Assolutamente no. Possiamo, per ciò solo, dire che uno sia migliore dell'altro?
Altro esempio: le clausole sociali. La cosa che stupisce particolarmente chi scrive è che l'ANAC e l'INL non abbiano dato alcun valore giuridico alla disciplina sulle clausole sociali contenute nei contratti collettivi.
Pensiamo al CCNL delle cooperative sociali ed a quello della Ristorazione Collettiva: il primo non prevede un'anzianità minima sulla commessa per avere diritto all'assunzione per cambio appalto per cui, anche la risorsa assunta il giorno prima del passaggio di appalto, ha pieno diritto all'assunzione; il secondo prevede che abbiano diritto all'assunzione per cambio appalto solo coloro che sono iscritti da almeno sei mesi nel LUL riferito all'unità produttiva.
Possiamo dire che ci sia equivalenza tra i due contratti? Assolutamente no, è ben evidente.
Ma possiamo dire, per ciò solo, che uno sia migliore dell'altro? Altrettanto evidentemente no.
Ed il periodo di preavviso? Perché un periodo più esteso di un altro è da considerarsi maggiore tutela? Dipende se è il lavoratore a dimettersi (quindi è ipotizzabile che voglia disfarsi di quella obbligazione contrattuale il prima possibile) o viene licenziato (ma anche in questo caso la tutela è normativa a nulla rilevando la durata del periodo ex art 2119 c.c.).
Regole, norme, principi. Tutto comprensibile. Fino a che diventa incomprensibile.
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