giovedì 06/02/2025 • 06:00
Con l'ammissione da parte della Corte Costituzionale dei quesiti referendari promossi in materia di lavoro, si conferma la necessità di una verifica sui contenuti e sulle conseguenze che deriverebbero in caso di accoglimento del quesito riguardante il contratto a tempo determinato e del quarto quesito sull'estensione della responsabilità del committente nel contratto di appalto.
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Due dei quattro quesiti in materia diritto del lavoro ammessi dalla Corte Costituzionale investono le norme in materia di licenziamento, sia la legge n. 604/66, sui licenziamenti individuali, che il cosiddetto regime delle “tutele crescenti”, introdotto con il d.lgs. 23/2015. Un terzo quesito riguarda il contratto a tempo determinato, per il quale si vorrebbe il ritorno alla causalità diffusa, a prescindere dalla durata del rapporto, infine, con il quarto quesito, si vorrebbe estendere la responsabilità del committente nell'ambito del contratto di appalto, per fatti dell'appaltatore, anche in caso di rischi specifici propri dell'attività dell'appaltatore.
Le intenzioni di riforma della disciplina dei contratti a termine
Il terzo quesito rappresenta un evergreen dei dibattiti in materia di lavoro, quale la disciplina dei contratti di lavoro a tempo determinato, da sempre approcciata, a seconda del “colore” politico degli interessati, quale momento di flessibilità essenziale per il mondo del lavoro, da proteggere dagli abusi ma da garantire nella sua applicazione virtuosa, oppure quale manifesto di precarietà.
Il quesito che sarà oggetto del referendum proposto, riguarda la possibilità, ad oggi prevista, di stipulare contratti a tempo determinato acausali, se la durata non supera i dodici mesi, e quella di individuare, per periodi superiore e fino al massimo di ventiquattro mesi, causali legate ad esigenze di natura tecnica, organizzativa e produttiva, individuate dalle parti, in assenza di previsioni della contrattazione collettiva in tal senso.
Quest'ultima eventualità, ad oggi possibile fino al 31 dicembre 2025, rappresenta per la verità un'eccezione, prevista non quale alternativa alla disciplina della contrattazione collettiva, ma subordinata alla verifica della sua assenza, e per un periodo limitato, soltanto in caso di inattività delle parti sociali, alle quali il legislatore ha demandato il compito, in virtù del loro ruolo di rappresentanza degli interessi e della garanzia dei diritti dei lavoratori, di individuare le causali che consentono la stipula di contratti di lavoro subordinato a termine, evitando così lo stallo e l'inapplicabilità della norma, nelle more delle determinazioni da parte della contrattazione collettiva.
La scelta di consentire l'apposizione di un termine al contratto di lavoro senza indicare le ragioni di quella predeterminazione, purché la durata del rapporto non sia superiore a dodici mesi, è stata invece sempre considerata quale ragionevole equilibrio tra le esigenze di vigilare sulla applicazione del contratto a tempo determinato evitandone gli abusi, e quelle di assecondare interessi reciproci a instaurare rapporti di lavoro per un determinato periodo di tempo, nello specifico ragionevolmente breve, senza gravare gli interessati di giustificazioni di dettaglio che, dato il breve periodo della durata, possono costituire un onere finanche troppo limitativo.
Tale scelta peraltro, è sempre stata condivisa o, comunque, ritenuta plausibile, perché compatibile, tra l'altro, con le previsioni comunitarie in materia, spesso invocate sul tema, non sempre a proposito.
La Direttiva 1999/70/CE infatti, non prevede affatto rigidità eccessive in materia di contratti a tempo determinato, ma molto più semplicemente, ed in maniera chiara, richiede che l'applicazione di questo tipo di contratti sia monitorata dagli Stati membri, al fine di prevenirne gli abusi dell'utilizzo, causati da una applicazione in successione senza limiti o una loro applicazione senza particolari limiti.
A tali fini la previsione di matrice unionale, richiede che siano posti limiti alla durata massima dei contratti a tempo determinato o, in alternativa, che siano previste specifiche ragioni per la loro conclusione.
È evidente che entrambi i requisiti sono già contenuti nella normativa vigente, che quindi è oggettivamente anche più rigorosa delle prescrizioni della Direttiva, mentre mal si comprendono quali potrebbero essere i vantaggi delle conseguenze di un eventuale accoglimento del quesito referendario, che comporterebbe un importante giro di vite nella applicazione dei contratti a termine, che inciderebbe però non tanto sulle fattispecie illecite, quando sulla possibilità di ricorrervi per esigenze effettive ed intenzioni genuine.
Tutto ciò, peraltro, in un quadro attuale in cui, è testimoniato dai dati statistici, in ogni caso i contratti a tempo indeterminato sono comunque in aumento, a conferma che al netto delle patologie, che sono di competenza dei servizi ispettivi, la stabilità dei rapporti di lavoro è comunque perseguita dagli operatori, quando le condizioni economiche lo consentono.
astensione della responsabilità del committente
Il quarto dei quesiti referendari che investono il diritto del lavoro, ha ad oggetto l'abrogazione dell'art. 26, comma 4, del d. lgs. n. 81/2008, dalla quale si vorrebbe l'estensione al committente anche della responsabilità degli infortuni che si siano verificati in conseguenza dei rischi specifici propri dell'attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici.
La norma che con il quesito si vorrebbe abrogare (art. 26 del d. lgs. n. 81/2008), nel ritenere la responsabilità solidale del committente (con l'appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori) per tutti i danni per i quali il lavoratore, dipendente dall'appaltatore o dal subappaltatore, non risulti indennizzato ad opera dell'INAIL o dell'IPSEMA, esclude tale responsabilità solidale in caso di danni conseguenza dei rischi specifici propri dell'attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici. Tale esclusione verrebbe meno in caso di accoglimento del quesito referendario promosso.
Le conseguenze per la verità suscitano talune perplessità oggettive e non di poco conto.
L'eventuale estensione al committente della responsabilità per danni che siano conseguenza dei rischi specifici propri dell'attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici, costituirebbe una estensione di responsabilità in capo ad un soggetto, il committente, che rispetto alle peculiarità dell'attività, e dei rischi specifici propri che ne possono scaturire, di un altro soggetto (appaltatore e subappaltatore), ha, per ragioni che prescindono dalla sua competenza e diligenza, una conoscenza, consapevolezza, preparazione ed esperienza, verosimilmente minime o finanche nulle. E comunque ad un livello tale che esondano dalla propria attività, proprio per la specificità dei rischi previsti dalla norma, rispetto ai quali è difficile, affidandosi ai princìpi generali di diritto, riconoscere una qualche sua responsabilità (al netto evidentemente di connivenze fraudolente, che in ogni caso ben possono essere perseguite a legislazione vigente). Attribuirgli una obbligazione risarcitoria, anche se in via solidale, sulla base di tali premesse, a prescindere dalla verifica del suo comportamento in termini di diligenza ragionevolmente pretendibile, e in assenza della possibilità della individuazione di una qualche responsabilità effettiva, palesa peraltro rischi concreti di configurare una ipotesi di responsabilità oggettiva, perciò inammissibile.
Né paiono concretamente condivisibili le ragioni che hanno accompagnato la posizione del quesito, secondo le quali l'abrogazione in parola consentirebbe un allineamento rispetto alle norme che regolano in generale la responsabilità solidale del committente per le retribuzioni e gli oneri previdenziali, prevista dall'art. 29, d. lgs. 276/2003.
In realtà, proprio la norma invocata per il (preteso) sostegno alle ragioni del quesito referendario dimostra il contrario: l'art. 29 esclude esplicitamente dalla obbligazione solidale cui è tenuto il committente con l'appaltatore e gli eventuali subappaltatori, la responsabilità per le sanzioni, delle quali risponde soltanto il responsabile dell'inadempimento.
Tale limitazione è diffusamente giustificata da dottrina e giurisprudenza con l'inammissibilità della previsione di obbligazioni estranee ad un grado, anche minimo, di responsabilità addebitabile al soggetto che si vuole onerare.
Ciò che accadrebbe nel caso dell'affermazione del quesito in premessa.
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Pasquale Staropoli
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