Con la sentenza n. 1082 del 9 maggio 2024, la Cassazione è di nuovo intervenuta sul tema del corretto uso dei permessi mensili concessi al dipendente per l'assistenza a familiari con disabilità gravi (ex art. 33 comma 3 L. n. 104/92). E lo ha fatto confermando l'illegittimità del licenziamento per giusta causa irrogato ad un lavoratore che aveva assolto ad alcuni incombenti personali, oltre che all'attività strettamente assistenziale.
Nel dettaglio, l'azienda aveva contestato al dipendente, sulla base della relazione di un investigatore privato, di aver passato quattro giornate di permesso al mare con la moglie gravemente disabile - affetta da una grave bronchite asmatica - nonché di avere anche portato il cane di famiglia dal veterinario, in altri giorni.
La sentenza di prime cure del Tribunale di Busto Arsizio aveva confermato il licenziamento, ritenendo tali azioni estranee e “abusive” rispetto alla finalità di cura del permesso fruito; in secondo grado, la Corte d'Appello di Milano, con sentenza n. 230/2021, aveva rovesciato il verdetto, valutando che tali condotte, nel più ampio contesto delle dinamiche familiari e della documentazione prodotta dal lavoratore, non fossero idonee ad escludere il carattere assistenziale delle occupazioni svolte durante i permessi e, dunque, a legittimare un recesso per giusta causa.
La Cassazione ha confermato la sentenza d'appello, richiamando propri precedenti (Cass. n. 29062 del 5/12/2017 e n. 19580 del 19/7/2019).
Nel declinare i principi in materia, la Cassazione ha dapprima premesso che, per pacifica giurisprudenza, le condotte totalmente avulse dalla finalità assistenziale sono idonee a sostenere una giusta causa di recesso perché l'istituto in parola, per privilegiare le preminenti esigenze di cura del familiare disabile, comprime le necessità dell'organizzazione aziendale. Qualora la fruizione dei permessi tradisca però un difforme scopo, si configura un abuso di diritto (così Cass. n. 17102/2021; n. 19580/2019; n. 8310/2019) oppure una violazione del dovere di correttezza e buona fede, sia verso il datore, sia verso l'INPS che fornisce copertura economica all'istituto (Cass. n. 9217/2016).
Infatti “l'assistenza che legittima il beneficio in favore del lavoratore, pur non potendo intendersi esclusiva al punto da impedire a chi la offre di dedicare spazi temporali adeguati alle personali esigenze di vita, deve comunque garantire al familiare disabile in situazione di gravità di cui all'articolo 3 comma 3 della l. n. 104 del 1992 un intervento assistenziale di carattere permanente, continuativo e globale nella sfera individuale e di relazione; pertanto ove venga a mancare del tutto il nesso causale tra assenza dal lavoro e assistenza al disabile, si è in presenza di un uso improprio o di un abuso del diritto ovvero di una grande violazione dei doveri di correttezza e buona fede sia nei confronti del datore di lavoro che dell'ente assicurativo” (Cass. 1082/2024 cit.)
Nell'applicare questo principio, la Corte d'Appello milanese, giustamente - stando alla Cassazione - aveva ritenuto che nella vicenda de quo sussistesse un nesso tra l'attività apparentemente estranea ai permessi svolta dal dipendente e la finalità assistenziale alla moglie disabile. Per più motivi.
Quanto alle giornate passate assieme in riviera, perché “È notorio che il soggiorno al mare, anche nei periodi invernali, possa portare giovamento ai pazienti asmatici, come del resto comprovato sia da plurimi pareri medici prodotti agli atti”; del resto “la certificazione-preesistente ai fatti contestati”, “sconsiglia(va) alla disabile, sia pur in ambito lavorativo, la “permanenza in ambienti inquinati o con microclima sfavorevole“, oltre che il compimento di sforzi intensi (doc. 2 reclamante, cfr anche doc 7, 8 reclamante)“.
Dunque, ha considerato che “la presenza del marito durante il soggiorno al mare del coniuge avesse finalità assistenziali” […], facendo riferimento ad ulteriore documentazione. Si è trattato di una valutazione complessiva, in cui il dato desunto dalla comune esperienza è stato corroborato dalle altre emergenze istruttorie” (Cass. 1082/2024 cit.).
Relativamente alle visite dal veterinario, il Collegio milanese aveva giustificato il dipendente osservando che gli “era stato contestato di aver “utilizzato parte dei permessi “, e che in giudizio erano emersi e valutati unitariamente “elementi quali: l'impiego di una frazione di tempo assai limitata rispetto alla durata complessiva del permesso per il trasporto del cane dal veterinario (secondo quanto allegato dalla stessa reclamata nelle relazioni investigative depositate in atti [...]); l'utilizzo della restante frazione di permessi per attività domestiche e assistenziali a beneficio del coniuge; la circostanza che l'accudimento dell'animale domestico di famiglia da parte del marito comporti comunque una diminuzione dell'aggravio delle attività destinate ad essere alternativamente svolte dal coniuge disabile; il carattere urgente non prevedibile delle cure veterinarie in concreto praticate”. Tutte circostanze che, secondo la Cassazione, escludevano la rilevanza disciplinare della condotta, alla luce dei principi interpretativi già riferiti.
I precedenti conformi all'orientamento più favorevole al lavoratore
Altre sentenze hanno valutato che tra i compiti di cura che il dipendente si trovi costretto ad assolvere nei confronti del familiare non rientri soltanto l'assistenza strettamente personale e continuativa al disabile, ma anche attività apparentemente comuni ed ordinarie che però sollevino indirettamente il familiare disabile da incombenze intollerabili per il suo handicap; o, ancora, occupazioni del lavoratore che comportino un impiego minimo del tempo dei permessi, non in grado di alterare la complessiva corretta destinazione del giorno di permesso.
Secondo la giurisprudenza più benevola, è infatti necessario tenere presente che “il concetto di assistenza non va inteso come vicinanza continuativa e ininterrotta alla persona disabile, essendo evidente che la cura di un congiunto affetto da menomazioni psico-fisiche, non in grado di provvedere alle esigenze fondamentali di vita, spesso richiede interventi diversificati (come fare la spesa, compiere acquisti, sbrigare incombenze) funzionali alla cura e all'assistenza di una persona disabile, non implicanti la vicinanza allo stesso” (Corte d'Appello di Campobasso, sez. lav., 26 ottobre 2019; in senso conforme Cass., sez. lav., 22 gennaio 2020, n. 1394; Cass., sez. lav., 2 ottobre 2018, n. 23891).
Allo stesso modo, si è ritenuto che “difetta di proporzionalità il recesso intimato ad un dipendente che ha fruito dei permessi previsti dalla L. n. 104 del 1992 anche per lo svolgimento di attività estranee alle finalità proprie dell'istituto” quando “tali attività estranee riguardavano un arco di tempo limitato, e una frazione minoritaria, ossia il 18.75% del tempo. Pertanto, l'abuso del diritto, seppur configurabile, non aveva assunto una gravità tale da determinare il venire meno dell'elemento fiduciario alla base del rapporto di lavoro” (Cass. 2 marzo 2022, n. 6796).
In un'altra vicenda, i Giudici hanno valutato benevolmente il comportamento di un lavoratore in permesso, costretto da un evento di natura imprevista (infiltrazioni d'acqua nell'immobile di proprietà) a svolgere i lavori nei locali interessati, con riduzione della sua presenza presso la casa del padre assistito; e ciò, anche perché per altri due giorni contestati non vi era prova di una mancata assistenza, o disponibilità, per la più parte del giorno. Era dunque da escludere la natura abusiva dell'utilizzo, in quanto “In tema di permessi mensili per assistenza al disabile ex lege n. 104/1992 è illegittimo il licenziamento irrogato nei confronti del lavoratore che abbia utilizzato tali permessi se non emerge una preordinata operazione diretta all' indebita fruizione nei giorni oggetto della contestazione disciplinare al solo fine di espletare attività estranee all'assistenza del congiunto” (Cass., sez. lav., 22 ottobre 2019, n. 26956).
L'orientamento più restrittivo
In altri precedenti, la Cassazione ha invece espresso posizioni più severe, sancendo che “Il permesso ex art. 33 della legge n. 104/1992 è riconosciuto al lavoratore in ragione dell'assistenza al disabile, rispetto alla quale l'assenza dal lavoro deve porsi in relazione causale diretta, senza che il dato testuale e la ratio della norma ne consentano l'utilizzo in funzione meramente compensativa delle energie impiegate dal dipendente per la detta assistenza. Ne consegue che il comportamento del dipendente che si avvalga di tale beneficio per attendere ad esigenze diverse integra l'abuso del diritto e viola i principi di correttezza e buona fede, sia nei confronti del datore di lavoro che dell'Ente assicurativo, con rilevanza anche ai fini disciplinari” (Cass., 13 settembre 2016, n. 17968; conformi: Cass., 30 aprile 2015, n. 8784; Cass., 4 marzo 2014, n. 4984).
Anche la giurisprudenza di merito ha in altre occasioni ritenuto abusivi gli utilizzi del beneficio.
È il caso in cui il padre di una lavoratrice, bisognoso di assistenza, era sempre uscito di casa sulla sedia a rotelle accompagnato da altri assistenti, tradendo platealmente l'assenza di un legame tra i permessi e le esigenze di cura. Peraltro, il dipendente, contestualmente, era impegnato nella “frequentazione di agenzie di viaggi, negozi di cibo per animali, negozi di sigarette elettroniche, negozi per fare la spesa e sportelli bancomat”. Tutte attività considerate “una modalità comune di utilizzo del tempo libero di ogni persona adulta che provvede alle esigenze proprie e della famiglia. Di conseguenza, la reclamante avrebbe dovuto provare che le stesse uscite fossero in significativo nesso causale con la fruizione del permesso, ovvero con le esigenze personali del padre” (Corte App. Firenze, 21 giugno 2022, n.494).
Le stesse riserve verso il lavoratore che utilizzi parte consistente del tempo dei permessi in attività incompatibili con l'assistenza del disabile sono state espresse in un caso in cui il lavoratore svolgeva al mattino attività lavorativa presso l'edicola della moglie, prestando poi assistenza alla madre disabile solo nel pomeriggio. Sul punto, “pur dovendosi escludere la necessità per il lavoratore che fruisca dei permessi ex L. n. 104 del 1992 di svolgere assistenza in orario coincidente con quello di lavoro potendo egli programmare l'attività in modo più consono alle proprie esigenze (come indicato nella sentenza della Cassazione penale 54712-16 richiamata nell'ordinanza in sede sommaria), cionondimeno deve sussistere un nesso causale tra le attività svolte in tale orario e l'incarico di assistenza, per cui ciò che rileva non è il fatto che l'assistenza sia stata fornita in orario diverso da quello di fruizione dei permessi, ma che le ore di permesso, nelle quali il lavoratore si era astenuto dall'attività lavorativa, siano state destinate non al recupero delle energie psico-fisiche utili alla prestazione di assistenza, bensì allo svolgimento di una prestazione lavorativa presso terzi, in cui non è possibile scorgere alcun nesso teleologico con l'assistenza della madre inabile […] La condotta risultava lesiva della buona fede, integrando un abuso del diritto […] in quanto priva il datore di lavoro della prestazione lavorativa in violazione dell'affidamento riposto nel dipendente ed integra, nei confronti dell'Ente di previdenza erogatore del trattamento economico, un'indebita percezione dell'indennità ed uno sviamento dell'intervento assistenziale (Corte d'Appello di Roma, 8 luglio 2021, n.2860).
LA SOLUZIONE
Per le diverse interpretazioni che la giurisprudenza ha fornito in tema di attività svolte durante i permessi ex Legge 104/92 - fuori dalle ipotesi estreme di finalità platealmente avulse dall’assistenza - un consiglio prudenziale è quello di non precipitarsi a recedere dal rapporto, soprattutto nel caso di deviazioni solo parziali dal fine per il quale sono accordati i permessi. Nel caso di tali parziali deviazioni (o perché riguardanti attività con un potenziale beneficio indiretto al familiare disabile, o perché svolte in misura minima nell’arco temporale dedicato al medesimo), è preferibile adottare sanzioni conservative, comunque idonee a correggere il tiro nella futura fruizione dei medesimi.