A partire dai primi contagi avvenuti nel febbraio 2020 il COVID-19 è entrato a far parte della quotidianità di tutti, permeando in ogni sfera della vita: privata, affettiva e, infine, lavorativa.
Durante i primi mesi, diventati poi anni, dell'emergenza pandemica abbiamo acquisito sempre più confidenza con il lessico, divenuto tristemente familiare: isolamento, quarantena, mascherina FFP2 o chirurgica, coprifuoco, positività, etc., i quali non sono diventati solamente parte del nostro linguaggio quotidiano ma, di riflesso, un elemento costante anche nella sfera giuridica (tempestata di decreti legge tra l'emergenziale e lo schizofrenico).
L'orecchio umano ha questa tendenza: se un termine non è più di moda o costante, tende a dimenticarsi. La recente impennata di contagi ci impone di ricordare celermente lo stato dell'arte giuridico del COVID-19, considerando quali siano gli effetti ad oggi prodotti con riferimento al rapporto di lavoro.
Smart-working
Lo smart-working, disciplinato dalla legge 81/2017, ha rappresentato durante il periodo emergenziale la modalità di svolgimento normale dell'attività lavorativa (laddove possibile), proprio con il fine ultimo di limitare le occasioni di contagio tra i dipendenti e garantire dunque il massimo rispetto della sicurezza sul luogo di lavoro.
Sebbene la legge 81/2017, che ha avuto il merito di introdurre e disciplinare la modalità di “lavoro agile” nell'ordinamento italiano, qualificasse lo smart-working come modalità di svolgimento della prestazione lavorativa per facilitare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, l'esperienza pandemica ha contribuito ad una ridefinizione di tale strumento non più come strumento di flessibilità, bensì come “misura sanitaria”.
Oggi, dopo quasi 4 anni dal febbraio 2020, assistiamo ad una duplica funzione dello smart-working:
da un lato, infatti, la pandemia da COVID-19 è stata occasione per molte aziende di sperimentare questa modalità alternativa di svolgimento della prestazione lavorativa, magari conciliandola progressivamente a forme di attività “ibride” (parte in presenza e parte da remoto). Secondo questa ottica, lo smart working è tornato progressivamente a rappresentare non più solo uno strumento per evitare il contagio da COVID-19 ma si è riappropriato della sua caratteristica “flessibile” che, di fatto, ne rappresenta la ratio stessa.
Sul punto si segnala l'intento del Legislatore che, a continue riprese (da ultima l'art. 42, c. 3, DL 48/2023) intende continuare a garantire lo svolgimento dell'attività di lavoro in smart-working ai dipendenti con almeno un figlio minore di 14 anni a patto che l'altro genitore non sia beneficiario di strumenti di sostegno al reddito oppure non sia disoccupato.
Come noto, tale disposizione è stata di nuovo reiterata al 31 marzo 2024 a cura della recente legge di conversione del c.d. Decreto Anticipi, in via di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale.
Parallelamente, lo smart-working continua a costituire una forma di protezione sanitaria per tutti quei lavoratori che, in ragione della propria qualifica di “fragili” (ossia affetti da una delle patologie individuate dal ministero della Salute DM 4 febbraio 2022), possono svolgere la prestazione lavorativa in modalità agile anche, ove necessario, attraverso l'adibizione a diversa mansione. Analogamente, possono godere della medesima concessione anche i lavoratori maggiormente esposti a rischio di contagio da COVID-19, in ragione dell'età o della condizione di rischio derivante da immunodepressione o da condizioni di particolare criticità (patologie oncologiche, terapie salvavita, etc.). Fino al 31 dicembre 2023, i soggetti maggiormente esposti al rischio di contagio da COVID-19, possono richiedere di essere sottoposti a visite mediche nell'ambito della sorveglianza sanitaria eccezionale allo scopo di richiedere al proprio datore di lavoro lo svolgimento dell'attività in smart-working.
Malattia da COVID-19
Fino al 31 dicembre 2021, la quarantena di un lavoratore determinata dal contagio con un soggetto positivo al COVID-19 veniva a tutti gli effetti equiparata a malattia e, di conseguenza, garantiva l'indennizzazione da parte dell'INPS.
Ad oggi, in ragione della diffusione dei vaccini e di una minore pressione esercitata dal Coronavirus sul sistema sanitario nazionale, la situazione è ben diversa.
Infatti, il lavoratore che per rischio di contagio decida di isolarsi, può alternativamente:
svolgere la prestazione lavorativa in modalità agile, laddove presente un accordo tra le parti;
richiedere che il periodo di assenza imputabile a quarantena possa essere considerato come “permesso” o “ferie”. Si ricorda infatti come, ad oggi, non sia più prevista alcuna misura restrittiva non confronti dei soggetti che siano entrati a contatto con casi accertati di COVID-19. Chiaramente è bene probabile che un lavoratore positivo ma asintomatico (dato che se manifestasse sintomi verosimilmente dovrà essere considerato, previa certificazione medica, in malattia) non sarà sicuramente “contento” di essere considerato in ferie e potrebbe dunque chiedere di essere re introdotto nel normale ciclo produttivo, munto di mascherine e sistemi adeguati. In tal senso il documento di valutazione dei rischi potrebbe determinare a priori l'esclusione del re inserimento fino a guarigione clinica del solerte lavoratore.
Parimenti, anche nei confronti dei soggetti affetti da COVID-19 non vengono previste misure differenti rispetto agli eventi di malattia “ordinaria”: il lavoratore sarà quindi tenuto ad avvisare il proprio medico ai fini del rilascio di un certificato di malattia, con piena rilevanza ai fini del comporto.
Si segnala tuttavia come l'art. 87, c. 1, DL 18/2020, mai abrogato dal Legislatore, continui ad equiparare l'evento morboso da COVID-19, nei confronti dei lavoratori dipendenti delle amministrazioni di cui all'art. 1, c. 2, D.Lgs. 165/2001 (amministrazioni pubbliche), al “periodo di ricovero ospedaliero e non è computabile ai fini del periodo di comporto”.
In attesa di una esplicita abrogazione di tale disposto, le previsioni dell'art. 87 sembrano continuare ad applicarsi ai dipendenti pubblici al servizio delle amministrazioni identificate dal D.Lgs. 165/2001.
In ogni caso, al di là delle specifiche regole emanate nell'ultimo triennio per contrastare la pandemia da COVID-19, si ritiene quale regola generale cui i lavoratori sono chiamati ad attenersi quanto previsto dall'art. 20 D.Lgs. 81/2008 in materia di salute e sicurezza sul luogo di lavoro. Infatti, il Legislatore prevede che “ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quelle delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni […]”. Banalmente, essere positivi e non proferirlo, è condotta da censurarsi.
Quarantena: la sentenza della CGUE
Attraverso la sentenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea (C-206/2022) pubblicata il 14 dicembre 2023, viene chiarito che, in caso di quarantena di un lavoratore, il datore di lavoro non è tenuto a compensare gli svantaggi causati da tale evento.
Il caso in questione verteva in concreto sulla condizione di un lavoratore che, poiché in stato di quarantena, si interrogava in merito alla possibilità che tale periodo venisse riconosciuto come malattia (come peraltro recepito dal Legislatore italiano nel corso dei mesi di pandemia) oppure come ferie o permessi (analogamente alla prassi attualmente vigente).
Ad oggi, la quarantena non può essere equiparata a malattia in quanto, secondo la CGUE, lo stato in cui verte il lavoratore in isolamento non impedisce che lo stesso possa dedicarsi ai propri interessi, al riposo e alla distensione dall'attività lavorativa.
Pertanto, se in un primo momento era apparsa logica la necessità di tutelare anche tale fattispecie preventiva, ad oggi non sussiste più alcuna motivazione sottostante all'equiparazione tra la quarantena e l'effettivo contagio da COVID-19.
Infortunio sul lavoro
Nei casi accertati di infezione da COVID-19 avvenuta sul luogo di lavoro, l'evento morboso verrà equiparato non più a malattia ma ad infortunio e, per tale ragione, il datore di lavoro sarà tenuto ad adempiere agli ordinari obblighi previsti in questo caso (es. certificato di infortunio e denuncia dello stesso all'INAIL).
Si ricorda infatti come, ai fini della qualificazione dell'evento come infortunio, si renda necessario un nesso causale tra l'attività lavorativa e l'evento (in questo caso, la contrazione dell'infezione da COVID-19). Il riconoscimento dell'origine professionale del contagio, che costituisce quindi il fondamento della fattispecie di “infortuni”, si fonda su un giudizio di ragionevole probabilità ed è estraneo da ogni valutazione in ordine alla responsabilità del datore di lavoro.
Decontribuzione Sud
Seppur solo in via consequenziale legata alla pandemia da COVID-19, che innegabilmente ha avuto importanti ricadute sul tessuto economico ed occupazionale del Paese, si segnala la decontribuzione Sud, introdotta dal Legislatore per mezzo dell'art. 27 DL 104/2020.
L'obiettivo dichiarato era quello di “contenere gli effetti straordinari sull'occupazione determinati dall'epidemia da COVID-19 in aree caratterizzate da grave situazione di disagio socio-economico e di garantire la tutela dei livelli occupazionali” attraverso il riconoscimento di una parziale decontribuzione dei complessivi contributi previdenziali (esclusi premi e contributi INAIL).
In particolare, l'agevolazione si applica nei confronti dei lavoratori dipendenti (ad eccezione del settore agricolo e domestico) nella seguente misura:
dal 1° ottobre 2020 al 31 dicembre 2025: pari a 30 punti percentuali;
nel biennio 2026 e 2027: pari a 20 punti percentuali;
e, infine, nel biennio 2028 e 2029: pari a 10 punti percentuali.
Fonte: CGUE 14 dicembre 2023 n. C 206/22