Il decreto legislativo per la Riforma del contenzioso tributario prevede che all'art. 48 D.Lgs. 546/92 sia aggiunto il comma 4 bis, per il quale le disposizioni sulla conciliazione fuori udienza da esso previste “si applicano, in quanto compatibili, anche alle controversie pendenti davanti alla Corte di Cassazione”. Contestualmente, viene modificato il primo comma dell'art. 48 ter dello stesso d.lgs., sviluppando il meccanismo premiale progressivo ivi disciplinato e prevedendo che la conciliazione consente la riduzione delle sanzioni nelle rispettive misure del 40% del 50% e del 60% del minimo, a seconda che intervenga nel primo, nel secondo o nel terzo grado di giudizio.
La relazione di accompagnamento chiarisce che tali disposizioni danno attuazione al criterio direttivo contenuto nell'art. 19, c. 1 lett. h, Legge 111/2023, che prescrive l'introduzione di “interventi di deflazione del contenzioso tributario in tutti i gradi di giudizio, ivi compreso quello dinanzi alla Corte di cassazione, favorendo la definizione agevolata delle liti pendenti”. Si tratta invero di una delle principali finalità della revisione della disciplina del processo tributario (già recentemente riformato dalla Legge 130/2022), perché l'abbattimento del contenzioso dinanzi alla Suprema Corte è stato incluso tra gli obiettivi del PNRR, e perché i noti carichi delle cause tributarie in sede di legittimità rappresentano attualmente il principale fattore di criticità dell'intero sistema della giustizia civile.
Innovazione non rilevante
Non sembra tuttavia che la misura in esame possa efficacemente contribuire al raggiungimento del risultato sperato. In primo luogo, non sembra trattarsi di una innovazione rilevante: nel passato, pur in mancanza di una norma espressa, non si è mai dubitato della possibilità di definire la lite mediante un accordo tra le parti anche nel grado di giudizio dinanzi alla Cassazione, secondo canoni di legalità e buona amministrazione.
L'unico elemento di novità può essere ravvisato nella previsione di una riduzione delle sanzioni al 60% del minimo, nel caso in cui l'accordo implichi un obbligo di pagamento del tributo. Non sembra però che tale premio sia sufficiente a conferire un effetto utile alla novella legislativa; e ciò non tanto per motivi di ordine procedurale o di convenienza economica, quanto per ragioni di ordine logico-giuridico, correlate alla tipologia del grado di giudizio per Cassazione e del principio di legalità che regola il rapporto giuridico di imposta.
Sotto il primo profilo, occorre considerare che il ricorso per Cassazione non consente di rimettere in discussione questioni di fatto, già definitivamente risolte con giudizio insindacabile dai giudici di merito (salvo il marginale caso dell'omesso esame di un fatto decisivo che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti, ove non ricorra l'impedimento della cd. “doppia conforme”); con la conseguenza che la conciliazione in sede di legittimità non dovrebbe normalmente riguardare questioni estimative, che pure dovrebbero rappresentare l'ambito tipico di accordi di tal genere.
La rinuncia all'azione proposta
Sotto l'altro profilo, si osserva che le questioni di legittimità proponibili in Cassazione non ammettono altra alternativa che quella della fondatezza o della infondatezza, in rapporto alle inderogabili norme di legge che regolano il rapporto, a cui l' Amministrazione finanziaria è tenuta ad uniformarsi; con la conseguenza che l'eventuale accordo conciliativo potrebbe trovare spazio nella sola ipotesi in cui le parti dovessero riconoscere la manifesta illegittimità delle proprie tesi e si tradurrebbe in una sostanziale rinunzia all'azione proposta (come potrebbe accadere qualora dovesse sopravvenire una norma interpretativa, o una sentenza di illegittimità costituzionale, o un intervento giurisdizionale che risolva definitivamente un contrasto giurisdizionale): tutte ipotesi alquanto rare, che oltre tutto, quando incidono sulla fondatezza della pretesa impositiva, trovano il normale strumento di soluzione nell'istituto dell'autotutela, che la riforma fiscale si propone di rimodulare, ai sensi dell'art. 4, comma 1, lett. h), della citata legge-delega, mediante introduzione degli artt. 10 quater e quinquies nello Statuto del Contribuente.
La collaborazione tra contribuente e fisco in ogni grado di giudizio
Si ritiene dunque che le disposizioni in esame finiscono per assumere un valore prevalentemente simbolico, perché evidenziano l'importanza della collaborazione tra contribuente e fisco in ogni stato e grado del giudizio, ma non recano un effettivo contributo alla deflazione del contenzioso dinanzi alla Cassazione. Poiché la bozza di decreto legislativo non contiene altre norme direttamente rivolte a questo scopo, occorre concludere che la riforma fiscale non riesce ad individuare specifici strumenti processuali che possano efficacemente incidere sui cronici problemi della giustizia tributaria in sede di legittimità, generati principalmente dalla manifesta sproporzione tra risorse disponibili e carichi processuali.
In mancanza di interventi istituzionali, capaci di incidere sostanzialmente sulla struttura del processo, ed al fine di abbattere l'abnorme numero delle cause pendenti in sede di legittimità, il legislatore continua dunque a privilegiare strumenti emergenziali (quali le norme di condono, variamente disseminate nell'art. 5 Legge 130/2022, o nell'art. 1 Legge 197/2022), o sembra confidare negli effetti indotti che potrebbero derivare da una pur auspicabile riduzione della conflittualità, soprattutto attraverso gli strumenti di “potenziamento del regime dell'adempimento collaborativo” previsti dall'art. 17, c. 1, lett. g), della legge-delega.
Strumenti processuali alternativi
Il legislatore delegato non prende invece in considerazione gli altri strumenti processuali (ed, in particolare, il “ricorso nell'interesse della legge” ed il “rinvio pregiudiziale”), che sono stati prospettati nel recente passato dalle varie commissioni di studio che si sono occupate della materia e che erano stati originariamente previsti dall'art. 2 del disegno di legge governativo n. 2636 A.S. (poi tradotto nella riforma del processo tributario del 2022), con il fine specifico di deflazionare il contenzioso e favorire una maggiore certezza del diritto. È verosimile che si sia preferito dare ascolto alle critiche che sono state sollevate da una parte della dottrina contro questi istituti e che hanno indotto il Parlamento a sopprimere simili proposte normative nella fase di approvazione del citato DDL, nel timore di accentuare il verticismo insito nella funzione di nomofilachia e di promuovere un'elaborazione giurisprudenziale decentrata e meglio articolata nei gradi di merito; ma non si è accorto che simili soluzioni, opportunamente selezionate in base a criteri ragionevoli, potrebbero arginare la continuativa e pregiudizievole proliferazione di cause seriali, contraddistinte da soluzioni interpretative incerte e contrastanti.
Il silenzio serbato sul tema del rinvio pregiudiziale genera peraltro un delicato problema interpretativo, perché tale istituto (già previsto dal predetto disegno di legge governativo sulla riforma del processo tributario e poi espunto dal testo definitivo della legge) è stato ormai introdotto nel processo civile mediante l'art. 363 bis c.p.c. [introdotto dall'art. 3, comma 27, lett. c), D.Lgs. 149/2022: cd. “riforma Cartabia”]. Sembra che la sua estensione al processo tributario derivi automaticamente dal principio generale contenuto nell'art. 1, c. 2, D.Lgs. 546/1992, secondo cui “I giudici tributari applicano le norme del presente decreto e, per quanto da esse non disposto e con esse compatibili, le norme del codice di procedura civile”; ma un chiarimento del legislatore delegato avrebbe risolto i dubbi ed avrebbe dato maggiore coerenza ed omogeneità al disegno riformatore, in relazione al tema esaminato.