La legge-delega per la riforma fiscale prevede, all'art. 4, la revisione della L. 212/2000, recante lo statuto dei diritti del contribuente. La relazione illustrativa afferma che le modificazioni dovranno essere funzionali al corretto dispiegarsi del diritto al contraddittorio. I principi ed i criteri direttivi specifici da seguire ai fini della revisione dello statuto sono suddivisi in nove categorie. La prima disposizione, specificata con la lettera a), riguarda il rafforzamento dell'obbligo di motivazione degli atti impositivi, anche mediate indicazione delle prove sulle quali si basa la pretesa fiscale.
Questa previsione merita la massima considerazione, perché la motivazione del provvedimento impositivo assume una rilevanza strategica per l'istaurazione di un corretto rapporto tra il contribuente e fisco. Tuttavia, essa potrebbe generare qualche equivoco, qualora si ritenesse, contrariamente al vero, che il vigente sistema normativo preveda un obbligo motivazionale “debole” e richieda l'introduzione di regole più incisive. Ciò che occorre, in realtà, non è la riforma dei principi vigenti, ma una loro più rigorosa attuazione nella prassi.
Principi generali dell'ordinamento tributario
Il vigente art. 7 c. 1 L. 212/2000 (che, dando attuazione agli artt. 3, 23, 53 e 97 Cost., già reca i principi generali dell'ordinamento tributario) impone già un obbligo di motivazione “forte”, in quanto dispone che gli atti impositivi sono motivati secondo quanto prescritto dall'art. 3 L. 241/1990, indicando i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione. La norma recepisce e trasfonde dunque nell'ambito tributario i principi elaborati dalla secolare giurisprudenza del giudice amministrativo e poi legificati dall'art. 3 della legge fondamentale sul procedimento amministrativo per disciplinare l'esercizio dei poteri autoritativi della P.A., garantendo la legalità e la trasparenza della sua azione.
In attuazione di tale norma, la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha superato i precedenti indirizzi, che attribuivano alla motivazione la mera funzione di consentire al contribuente di comprendere le ragioni essenziali della pretesa impositiva e di formulare adeguate difese contro di essa in sede giurisdizionale (in tal senso, Cass., 4307/1992), ed ha affermato che: «L'avviso soddisfa l'obbligo della motivazione quando pone il contribuente nella condizione di conoscere esattamente la pretesa impositiva, individuata nel suo "petitum e nella causa petendi", attraverso una fedele e chiara ricostruzione degli elementi costitutivi dell'obbligazione tributaria, senza che l'atto possa esaurirsi nell'enunciazione di una imposizione fiscale di per sè, il cui fondamento sia soggetto a verifica processuale eventuale ex post, dovendo la motivazione dare conto degli elementi di fatto ed istruttori del procedimento e del fondamento di legalità, i quali rendono da un lato trasparente il buon andamento (art. 97 Cost.) e, dall'altro, rendendo subito pienamente controllabile l'operato della Pubblica Amministrazione » (Cass., 30039/2018, che conferma l'orientamento già espresso da Cass. 22003/2014. Nello stesso senso, Cass., 24024/2015 e 20251/2015). Da ciò consegue che il giudice adito dovrà dichiarare nullo - senza entrare nel merito, indipendentemente dalla condotta processuale del contribuente e senza possibilità di emendare e/o integrare la motivazione - l'atto impositivo che non consenta di comprendere congruamente, con valutazione ex ante, le ragioni di fatto e di diritto della pretesa impositiva (cfr. Cass., 13620/2023; Cass., 17482/2021; Cass., 15895/2021; Cass., 6724/2021; Cass., 14931/2020; Cass., 4070/2020; Cass., 310/2020).
Questi principi astratti stentano a trovare corretta applicazione nel concreto. L'intento di non pregiudicare, per ragioni di ordine formale, l'interesse erariale all'adempimento degli obblighi contributivi; la tendenza a superare le questioni di diritto con considerazioni di fatto ed a degradare in semplici imprecisioni o inesattezze i casi di motivazione insufficiente ed illogica; i non sopiti echi della tradizionale qualificazione dell'atto impositivo quale mera provocatio ad opponendum (ancora presenti anche in alcuni arresti giurisprudenziali della S. Corte: cfr. Cass. 24449/2022; Cass., 10504/2021), tendono ad erodere il significato ed il valore del citato art. 7, comma 1, dello statuto. Ciò favorisce l'adozione di provvedimenti non adeguatamente motivati, basati su procedimenti amministrativi non compiutamente istruiti e su un contraddittorio endo-procedimentale incompiuto, perché i vizi potranno essere sanati nell'ambito del giudizio a cognizione piena che dovrà essere instaurato dinanzi al giudice competente, come strumento necessario per verificare l'effettivo fondamento della pretesa azionata.
L'esperienza dimostra che raramente le eccezioni pregiudiziali di nullità dell'atto impositivo per carenza di motivazione trovano accoglimento nella giurisprudenza di merito. A titolo esemplificativo, è stata ritenuta sufficiente la motivazione di un avviso accertamento della TA.RI. a carico di un opificio industriale, contenente la sola indicazione delle superfici e della tariffa applicabile e priva di riferimenti alla tipologia dei rifiuti prodotti (Cass., 13557/2023; CTR Piemonte, 1250/2019); di un accertamento IVA che negava l'applicabilità del regime di esclusione alle operazioni contestate senza alcuna analisi della loro specifica natura ed in considerazione della tipologia complessiva dell'attività esercitata (CGT primo grado Roma n. 1288/2023); di un accertamento IRPEF che ha ritenuto non dimostrati i costi portati in deduzione senza valutare la validità probatoria delle giustificazioni fornite (CTP Lecce, 3282/2018). In simili circostanze, rimane affidato alla successiva fase contenziosa, con oneri probatori accollati normalmente sul contribuente, il compito di integrare gli elementi incerti della fattispecie per valutare l'effettivo fondamento dell'obbligo di pagamento.
Gli obblighi motivazionali dell'atto impositivo
Il previsto “rafforzamento” degli obblighi motivazionali dovrebbe perciò incidere – ove possibile – non tanto sui principi normativi già esistenti, ma sulle modalità della loro concreta applicazione; e ciò in piena coerenza con il proposito della riforma di sviluppare i rapporti tra contribuente e fisco secondo regole di collaborazione e buona fede sin dalla fase procedimentale.
Occorre a tal proposito ribadire che la motivazione dell'atto impositivo non assolve alla sola funzione di consentire l'esercizio del diritto di difesa contro le pretese fiscali dinanzi ad un giudice indipendente; essa risponde anche, e soprattutto, al compito di promuovere la legalità e l'imparzialità dell'azione amministrativa, assicurando che la potestà impositiva sia esercitata sulla base di una compiuta istruttoria, considerando tutte le eccezioni, le deduzioni e le prove addotte dal contribuente a seguito di un leale contraddittorio. Ciò evita la formulazione di pretese autoritative non adeguatamente ponderate, che espongono il contribuente ad oneri indebiti e gli impongono di ricorrere alla tutela giurisdizionale per la salvaguardia della sua integrità patrimoniale.
L'obbligo di motivazione “rafforzato”, che è già insito nelle disposizioni costituzionalmente orientate del vigente statuto, si riflette direttamente sulla funzione del giudice tributario, che non dovrà solo mediare tra i contrapposti interessi del contribuente e del fisco, ma dovrà prioritariamente assicurare che l'azione accertatrice rispetti i dovuti canoni di legalità, imparzialità e buona amministrazione. Ciò non esclude che il giudizio, incidendo su diritti soggettivi (e non su semplici interessi legittimi), si svolga “a cognizione piena”, ma comporta che il giudizio sul rapporto si potrà esplicare solo dopo che il provvedimento impositivo abbia superato il preventivo vaglio di legittimità, per la riscontrata esistenza degli essenziali requisiti motivazionali prescritti dall'ordinamento.
In questa prospettiva si ridisegna anche il ruolo dell'ente impositore nel giudizio tributario. In verità, esso non configura una parte qualsiasi, che persegua l'interesse a massimizzare le proprie entrate ed affidi al giudice il compito di valutare l'effettivo fondamento della sua pretesa. Al contrario, esso deve assumere la veste di parte “qualificata” ed “imparziale”, dimostrando di agire nel rispetto dei generali canoni di legittimità dell'azione amministrativa, fatta salva la funzione del giudice di verificare, nel concreto, l'effettivo fondamento delle ragioni addotte e delle prove acquisite (in tal senso, Cass., 6524/2020; Cass., 4639/2020).