Auguro tutto il bene possibile all'ipotesi di riforma fiscale contenuta nella legge delega. Sarebbe bellissimo che il malessere sul fisco, con le sue sperequazioni, complicazioni, sensazionalismi e confusioni, potesse essere spazzato via a colpi di leggi delega e decreti delegati.
I meccanismi di funzionamento della riforma
Per riformare qualcosa bisogna però capirne i meccanismi di funzionamento tutti riconducibili ad una diversa determinabilità, documentale e valutativa, dei presupposti economici d'imposta, cioè ricavi, consumi e redditi. Una parte di essi è filtrata da affidabili procedure contabili dell'industria, delle banche, della grande distribuzione, delle assicurazioni, della pubblica amministrazione, con una facile determinabilità documentale.
A questi grandi uffici contabili si ricollegano gli adempimenti tributari, come scontrini, ricevute, fatture elettroniche, conti bancari, tracciabilità, trasmissione telematica dei corrispettivi con annessa lotteria degli scontrini. Tuttavia, man mano che le dimensioni aziendali diminuiscono, quest'apparato documentale e di adempimenti complica sempre più la vita degli operatori economici. Per molti di costoro gli adempimenti necessari a farsi pagare diventano più difficili del lavoro per cui si viene pagati; personalmente, ho chiuso la mia partita IVA a fine 2018, in coincidenza con l'introduzione della fattura elettronica, convergendo in uno studio professionale associato.
Questo contabilismo compulsivo sembra ispirarsi all'illusione di esportare la contabilità dove non esiste una necessità gestionale, e questo provoca una scoordinata e parallela crisi di rigetto. Mi riferisco al desiderio semplificatorio, altrettanto compulsivo, che spinge all'abolizione di adempimenti utili, in parallelo all'introduzione di adempimenti inutili, in un meccanismo che ormai è divenuto ingovernabile.
Per essere governato, come detto sopra, avrebbe bisogno di essere preliminarmente compreso, cosa che dai lavori preparatori della delega non risulta fatto in maniera sufficiente. Aspirazioni, proposte, soluzioni e chiavi di lettura estemporanee delle cause e dell'evasione si intrecciano in modo confusionario. Ciascuna di esse viene presentata come se potesse spiegare non dico tutto, ma molto più di quello che in realtà spiega. Essa viene presentata come una bandiera politica, uno strumento di comunicazione sociale, e inserita nella riforma senza coordinarla con le altre parallele diagnosi e ipotesi di soluzione. Questo provoca, nonostante le buone intenzioni semplificatrici, una confusione crescente, creando una babele al tempo stesso fastidiosa e inutile.
La trappola della comunicazione politica
Alla difficoltà di comprensione sociale della diversa determinabilità dei presupposti economici di imposta si accompagna infatti anche la tendenza legislativa a cadere nelle trappole della comunicazione politica. Invece di concentrarsi su come gestire la diversa determinabilità degli incassi del supermercato, dell'albergo, del meccanico, dell'idraulico, del ristoratore, della banca o dell'assicurazione, ci si disperde inseguendo il fisco per lo sviluppo, per la sostenibilità, per la ripresa demografica, per l'istruzione, per l'ambiente, per la digitalizzazione, per la ricerca scientifica, per il turismo, e via enumerando in uno sterile elenco di buone intenzioni che tuttavia produce comunicazione politica. Non ci si accorge che in questo modo si provoca al tempo stesso confusione, alimentando la spirale del disorientamento alla base della richiesta di riforme, in un circolo vizioso senza fine. Legiferare senza capire aumenta il malessere, che spinge alla richiesta di nuove riforme.
È accaduto sul fisco già con la riforma varata dal Governo Letta e ultimata dal Governo Renzi nel 2016, che ha cambiato pochi trascurabili dettagli. Anche in precedenza tutti i Governi hanno annunciato e spesso realizzato provvedimenti presentati come riforme fiscali. In assenza di adeguate spiegazioni della funzione tributaria, non solo lasciano le cose come stanno, ma addirittura aumentano la confusione. Anche se queste spiegazioni ci fossero bisognerebbe affrontare il passaggio successivo della gestione dei problemi che sono stati finalmente capiti. Di fronte alla difficoltà di questa gestione, si preferisce rimuovere, dalla stessa legge delega, i temi che potrebbero apparire imbarazzanti e su cui comunque non è chiarissimo in quale modo intervenire. Anche chi se ne rende conto, tra i politici, finge quindi di non vedere il problema vero indicato sopra sulla diversa determinabilità di ricavi, consumi e redditi. Forse molti si rendono conto che, con la diminuzione delle dimensioni aziendali, l'efficienza della determinazione documentale diventa meno efficiente, con le suddette inutili complicazioni.
Tuttavia essi stessi sono come impauriti dall'affiancamento alla determinazione contabile di valutazioni per ordine di grandezza. Queste ultime infatti richiederebbero un notevole impegno di risorse umane da parte degli uffici tributari, insufficienti rispetto ai parecchi milioni di piccoli operatori al dettaglio cui la determinazione documentale suddetta non si addice.
È già palese l'impossibilità di gestire il cosiddetto concordato preventivo biennale, vista l'enorme platea di contribuenti interessati. Anche per questo la delega si propone su questioni differenti come la rimodulazione delle aliquote, l'abolizione dell'IRAP, la tassazione internazionale, il contraddittorio nel procedimento d'imposizione e tanti altri tecnicismi anche importanti, ma non essenziali rispetto alla sopra descritta questione di fondo. Essa viene più rimossa che affrontata, salve le consuete espressioni di stile contro l'evasione fiscale.
È una reazione normale per una politica che sente il bisogno, davanti a un problema avvertito dall'opinione pubblica, di dire di aver fatto qualcosa. Al di là di tanti tecnicismi la delega sembra però correttamente prendere atto della necessità di un atteggiamento cooperativo tra fisco e contribuenti. È bene quindi che siano accantonate le parole d'ordine della lotta all'evasione e le distinzioni manichee tra contribuenti onesti e disonesti, perché sono queste le premesse culturali per gestire la diversa determinabilità delle varie forme di entrata.