venerdì 07/07/2023 • 06:00
La proposta di Direttiva sulle shell companies (ATAD 3) mira a ricomprendere tutte le entità residenti in uno Stato membro a fini fiscali, indipendentemente dalla loro forma giuridica. Si esaminano gli obblighi della proposta e le conseguenze di una entità in caso di qualificazione come shell company.
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La ratio della proposta di Direttiva in rassegna, che dovrebbe entrare in vigore dal 1° gennaio 2024, è quella di contrastare l'uso improprio delle entità prive di sostanza economica ai fini fiscali, avuto riguardo alle specifiche modalità di utilizzo della struttura c.d. interposta di volta in volta considerata, e non al tipo di costruzione giuridica utilizzata. Già nel 2018 il Parlamento Europeo aveva commissionato all'European Parliamentary Research Service (EPRS) uno studio in tema di società sprovviste di sostanza economica minima (categorizzate nella forma delle Anonymous shell companies, Letterbox companies e Special purpose entities - SPEs) al fine di individuare un set comune normativo ed interpretativo applicabile al fine di contrastarne l'utilizzo e l'uso improprio.
A chi si rivolge la proposta di Direttiva, e quali obblighi prevede?
Ad oggi, la proposta di Direttiva è ampiamente inclusiva e mira a ricomprendere tutte le entità (undertakings) residenti in uno Stato membro a fini fiscali, indipendentemente dalla loro forma giuridica: in quest'ottica, essa contempla anche le società di persone. In particolare, le imprese considerate “a rischio” (…di essere qualificate come shell companies), e che come tali potrebbero ricadere nell'ambito applicativo della proposta di Direttiva, presentano contemporaneamente una serie di caratteristiche (“gateway”) tipiche delle imprese prive di sostanza economica, ossia conseguono in misura rilevante “redditi pertinenti” (i.e. redditi geograficamente mobili/passive income), svolgono una cross-border activity ed esternalizzano ad imprese terze la gestione delle operazioni ordinarie e del processo decisionale relativo a funzioni significative.
Tali imprese devono dichiarare per ciascun esercizio fiscale al proprio Stato membro di residenza (allegando relativa documentazione) i seguenti indicatori di sostanza minima relativi:
Si presume che un'impresa che dichiari di soddisfare i requisiti sopra citati, e che fornisca prove documentali soddisfacenti, dispone di una sostanza minima per l'esercizio fiscale, con la conseguenza che non potrà essere considerata shell company.
Ma quali sono le conseguenze qualora una entità sia qualificata come una shell company?
In primis, il mancato rilascio del certificato di residenza fiscale della shell company da parte del suo Stato di “insediamento”, ovvero il rilascio di un certificato attestante che essa non potrà godere dei benefici previsti dalle Convenzionali internazionali contro le doppie imposizioni e dalle Direttive comunitarie, P/S e I/R (i.e. Direttiva Madre-Figlia e Interessi e Royalties).
Cosa non da poco conto.
Per quanto concerne le Convenzioni contro le doppie imposizioni applicabili, lo Stato della fonte del reddito, qualora sia uno Stato membro UE, non applicherà i benefici previsti dalla Convenzione contro le doppie imposizioni stipulata con lo Stato di insediamento della shell company, né le sopra citate Direttive. Tale Stato, nel caso, sarà tenuto a riconoscere i benefici previsti dall'eventuale Convenzione stipulata con lo Stato di residenza degli azionisti della shell company. Inoltre, lo Stato membro dell'azionista della shell company assoggetterà a tassazione per trasparenza (con un meccanismo - come osservato anche da Assonime - per certi versi assimilabile a quello della normativa CFC) i redditi da questa prodotti.
Alcune questioni e aspetti critici
La versione attuale della proposta di Direttiva (pur prevedendo alcune esclusioni soggettive ed esenzioni, nonché la c.d. “confutazione” della presunzione di essere considerata shell company, cfr. art. 9) pone alcune criticità, nonché alcune questioni interpretative e applicative che occorrerà valutare attentamente soprattutto nell'ambito delle strutture di investimento complesse e multilivello (si pensi, ad esempio, alle piattaforme di investimento UE detenute da società non UE).
In primis, si pone la questione della compatibilità della stessa con le libertà fondamentali garantite dal TFUE, e segnatamente con il principio della libertà di stabilimento e di proporzionalità (la proposta di Direttiva sembra determinare uno “scostamento” da tali principi), e con le norme sovranazionali ad oggi esistenti. Un esempio: l'art. 10 della proposta di Direttiva prevede l'esenzione dall'applicazione della stessa quando non si realizza l'effetto di ridurre il carico fiscale (…ma, verrebbe da chiedersi, in che percentuale?) della shell company, dei suoi titolari effettivi o del gruppo di cui la stessa fa parte. La norma parlando (solo) di assenza di vantaggi fiscali - e non di presenza di valide ragioni economiche/commerciali - non sembra allineata alla Direttiva DAC 6 (dove il vantaggio fiscale è posto a confronto con eventuali altri benefici economici, i.e. criterio del vantaggio principale), all'art. 6 della Direttiva ATAD (dove il vantaggio fiscale rappresenta lo scopo principale o uno degli scopi principali per cui l'operazione è posta in essere) e alla giurisprudenza unionale (si rimanda, ad esempio, alle sentenze CGUE Leur-Bloem e Hornbach).
A nostro avviso, ancorché sia essenziale che siano previste norme effettive e cogenti di contrasto alle entità interposte ai soli fini fiscali, il tema della compatibilità con il diritto UE e della sovrapposizione con altre norme già esistenti dovrebbe essere maggiormente attenzionato dal Legislatore comunitario. Diversamente ragionando, infatti, si alimenta un sistema di norme pluriformi, sovrapposte, eccessivamente frammentate e disorganiche, che hanno l'effetto di rendere il diritto, e la sua applicazione pratica, eccessivamente difficile.
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