venerdì 24/02/2023 • 06:00
La disciplina nazionale delle variazioni in diminuzione e quella relativa ai rimborsi del credito IVA non recepiscono correttamente i principi stabiliti a livello unionale, in contrasto con il principio di neutralità dell'imposta. Anche di questo si parlerà oggi nel convegno “1973-2023: 50 anni di IVA” organizzato da CNDCEC in collaborazione con Giuffrè Francis Lefebvre.
Per sanare tale difformità si auspica una revisione della normativa che renda effettivamente neutrale l'applicazione dell'IVA per gli operatori economici, eliminando il livello di incertezza e complessità del sistema attuale causa di innumerevoli contenziosi. Il raggiungimento dei 50 anni può essere un momento per fare bilanci, utile non solo per le persone ma anche per le imposte. Ed in effetti, approfittando dell'occasione del 50mo anniversario dell'IVA, un'imposta di apparente semplice applicazione, si mettono in evidenza alcune delle molteplici difformità tra la disciplina nazionale con la disciplina comunitaria (Direttiva 2006/112/CE del 28.11.2006 e relativi Regolamenti di esecuzione). Tra queste, due attengono a norme che hanno a che fare con il principio cardine dell'imposta: il principio di neutralità, ossia – nella sua accezione principale - il diritto dei soggetti passivi di detrarre l'IVA assolta sull'acquisto di beni e servizi destinati ad essere utilizzati ai fini di un'attività imponibile necessario a far si che l'imposta gravi esclusivamente sul consumatore finale. Si tratta dell'articolo 26, DPR 633/72, rubricato ‘Variazioni dell'imponibile e dell'imposta', e degli articoli 30 e 38-bis, DPR 633/72, in materia di rimborso dell'eccedenza di imposta. Le variazioni in diminuzione L'articolo 26, come noto, dovrebbe recepire l'articolo 90 della Dir.2006/112, che consta di due parti: 1) la prima relativa ai casi di annullamento, recesso, risoluzione o riduzione di prezzo successivamente al momento di esigibilità dell'imposta 2) la seconda al mancato pagamento in tutto o in parte del corrispettivo. Mentre nel caso di mancato pagamento del corrispettivo, la Direttiva lascia agli Stati membri la facoltà di prevedere una riduzione della base imponibile, nell'altro la riduzione della base imponibile è obbligatoria. La ratio della diversa previsione è che - in caso di mancato pagamento - l'operazione e il relativo corrispettivo restano validi conservando il fornitore un diritto di credito nei confronti del cliente. Di contro – negli altri casi – l'operazione viene meno, si riduce il corrispettivo convenuto ovvero si riduce l'imposta per iniziale errata applicazione e dunque non sussistono o si modificano gli elementi essenziali di applicazione del tributo, ossia il presupposto oggettivo, la base imponibile o la misura dell'imposta. L'articolo 90 (primo comma) va poi letto unitamente agli articoli 184 e 185 della medesima direttiva, che prevedono – per il cessionario o committente – l'obbligo di rettifica della detrazione, in particolare quando, mutano gli elementi presi in considerazione per determinare l'importo delle detrazioni, tra gli altri, in caso di annullamento di acquisti o qualora si siano ottenute riduzioni di prezzo. Nella norma nazionale, le diverse ipotesi di mancato pagamento sono ora correttamente disciplinate dai commi 3-bis e 5-bis, opportunamente inseriti dal Decreto-legge del 25/05/2021 n. 73, conv. con modificazioni dalla L. 23.7.2021, n. 106, così come auspicato a seguito della sentenza della Corte di Giustizia relativa alla causa C‑246/16 (Di Maura). Diversamente, i commi 2 e 3 dell'articolo 26 non recepiscono correttamente la direttiva. Infatti, la norma nazionale prevede: la facoltà (e non l'obbligo – come da direttiva) per il soggetto passivo cedente di effettuare una variazione in diminuzione dell'imponibile e dell'imposta pone dei limiti di tempo per effettuare tali variazioni qualora determinate da un accordo tra le parti intervenuto dopo il momento in cui si verifica l'esigibilità dell'imposta ovvero in caso di rettifica di inesattezze nella fatturazione quando queste abbiano dato luogo ad un versamento di imposta non dovuta. La previsione di una ‘facoltà', invece che di un obbligo, di operare variazioni in diminuzione con rilevanza IVA induce gli operatori economici a scelte non coerenti con l'impianto dell'imposta. Ben può succedere, infatti, che il cedente/prestatore ritenga non opportuno o conveniente – a fronte di una operazione venuta meno ovvero la cui base imponibile si sia ridotta - effettuare una variazione in diminuzione rilevante ai fini IVA. In questa ipotesi, la normativa italiana nulla prevede circa le conseguenze in capo al cliente, che dunque non è obbligato a rettificare l'imposta originariamente detratta. E ciò implica una ulteriore difformità con la Direttiva. Diverso il caso in cui l'operazione sia stata assoggettata ad imposta in misura superiore al dovuto, di cui si dirà in seguito. A ciò si aggiunga il limite temporale di un anno dalla data di emissione della fattura, difficilmente comprensibile e sicuramente eccessivo come condizione per evitare evasioni o rischi di abuso; per non parlare poi dell'ulteriore limite costituito dal termine di presentazione della dichiarazione relativa all'anno in cui il presupposto per la variazione si è verificato. Rispetto a quest'ultimo, infatti, nell'auspicata revisione della normativa nazionale, andrebbe chiarito che il richiamo all'articolo 19. oggi presente nell'articolo 26, sia da intendere esclusivamente rispetto all'importo della detrazione spettante e non già anche ai termini per il relativo esercizio. Peraltro, posto che ex art. 19 il diritto alla detrazione deve essere esercitato al più tardi con la dichiarazione relativa all'anno in cui il diritto alla detrazione è sorto, e non entro il termine di presentazione della dichiarazione, per quale motivo le variazioni in diminuzione dovrebbero essere necessariamente registrate entro il termine di presentazione della dichiarazione? Perché non anche rispetto ad una dichiarazione presentata nel termine di 90 gg ovvero una dichiarazione integrativa? Ciò posto, a fronte delle rigide condizioni poste dall'articolo 26, la normativa attuale prevede una serie di rimedi molto più complessi di quanto previsto dall'art.90 della Direttiva e che, ancorché mirino a questo, rendono la neutralità dell'imposta un obiettivo obiettivamente difficile da raggiungere generando inutile e dispendioso contenzioso. Parliamo dell'articolo 30-ter del DPR 633/72 e dell'articolo 6, comma 6, del D.Lgs. 471/1997. Riguardo al secondo, si osserva che la previsione del diritto alla detrazione dell'imposta erroneamente assolta dal cedente o prestatore è stata fortemente attenuata nelle interpretazioni della Corte di Cassazione, secondo la quale tale diritto dovrebbe essere limitato esclusivamente all'importo dell'imposta effettivamente dovuta, in quanto altrimenti sarebbe in contrasto con l'art. 184 e 185 della Direttiva. Proprio per le ragioni evidenziate, appare chiaro come la disciplina delle variazioni dell'imponibile e dell'imposta non può essere considerata una norma procedurale da inserire (come lo è attualmente) nel Titolo II del DPR 633/72 (Obblighi dei contribuenti) ma più propriamente nel Titolo I (Disposizioni generali) attenendo a elementi fondamentali dell'imposta quali la base imponibile, la misura dell'imposta e la detrazione. Ciò che invece potrebbe essere opportuno inserire al Titolo II è la ‘grande assente' ossia la disciplina del documento correntemente denominato ‘Nota di Credito'. La Nota di Credito, cui è stata attribuita di recente dalla prassi la stessa valenza di una fattura di acquisto ai fini dell'esercizio del diritto a detrazione, non è infatti ad oggi disciplinata né nell'articolo 26 né in generale nella normativa IVA di rango primario. Si parla infatti di mere registrazioni e non di emissione e trasmissione di un documento. I rimborsi Gli articoli 30 e 38-bis del DPR 633/72 recepiscono l'articolo 183 della Dir. 2006/112/CE, che dà la possibilità per gli Stati membri di prevedere specifiche modalità per l'esecuzione dei rimborsi del credito IVA. In attuazione della Direttiva, come noto ed in estrema sintesi, l'articolo 30 dispone che – in caso di eccedenza di imposta risultante dalla dichiarazione annuale - il contribuente possa chiederne il rimborso solo in alcuni specifici casi, determinati in base alle caratteristiche delle operazioni attive o passive. Qualora non si rientri in alcuna delle casistiche previste, il rimborso può essere richiesto solo in caso di situazione creditoria per 3 anni successivi e solo per il minore degli importi risultanti dalle 3 dichiarazioni, ovvero alla cessazione dell'attività. Inoltre, il rimborso, ai sensi dell'art.38-bis, può essere richiesto trimestralmente solo se si verificano alcune più restrittive condizioni. I soggetti non stabiliti, diversamente dai soggetti stabiliti, possono invece chiedere il rimborso dell'eccedenza di imposta sia in sede di dichiarazione annuale che trimestralmente senza dover soddisfare alcun requisito in termini di tipologia di operazioni effettuate. Le norme suindicate appaiono in contrasto con l'articolo 183 della Direttiva e le interpretazioni della Corte di Giustizia sotto diversi aspetti. Quanto alle condizioni previste dalla normativa, occorre infatti ricordare come la Corte di Giustizia (cfr. sentenza C-107/10 del 12 maggio 2011 p.to 29) ha chiarito che se l'attuazione del diritto al rimborso dell'eccedenza dell'IVA, prevista dall'art. 183 della direttiva IVA, ricade, in linea di principio, nella sfera dell'autonomia procedurale degli Stati membri, resta il fatto che tale autonomia è inquadrata nei principi di equivalenza e di effettività. In altri termini, gli Stati membri non possono stabilire le modalità di rimborso dell'eccedenza di IVA ledendo il principio della neutralità fiscale. Ossia il soggetto passivo deve poter recuperare il credito IVA entro un termine ragionevole. Sotto altro profilo, una normativa che agevola i soggetti non stabiliti rispetto ai soggetti stabiliti è contraria al principio di non discriminazione secondo un ordine “inverso” (cioè ponendo i contribuenti stabiliti in Italia in una situazione di svantaggio rispetto a quelli non residenti). Sarebbe dunque auspicabile che la disciplina dei rimborsi venga rivista eliminando le distinzioni tra situazioni oggettive e soggettive e prevedendo una generalizzata possibilità di chiedere il rimborso così da assicurare la effettiva applicazione del principio di neutralità e non discriminazione rispetto a tutti i soggetti passivi. La normativa, infatti, già prevede altri adempimenti che, essendo tesi a tutelare gli interessi erariali (tra tutti l'obbligo di rilascio di garanzia a favore della AF) non necessitano di ulteriori “appesantimenti” procedurali, ovvero di limitazioni al diritto al rimborso, che, al più, rappresentano elementi ostativi al pieno esercizio del diritto di credito e, quindi, all'applicazione del sovraordinato principio di neutralità che presiede al funzionamento dell'IVA. ISCRIVITI GRATIS per assistere alla diretta streaming del Convegno
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