Il fenomeno conosciuto con la denominazione “great resignation” non sembra arrestarsi. Anzi i dati del 2022 evidenziano come un crescente numero di persone abbia lasciato volontariamente il posto di lavoro senza avere in tasca una nuova lettera di assunzione.
Sono infatti oltre 1,6 milioni le dimissioni registrate nei primi nove mesi del 2022. Un dato in aumento, circa il 22% in più rispetto allo stesso periodo del 2021. Questa è la fotografia che emerge dal Ministero del Lavoro nei suoi monitoraggi periodici del mercato del lavoro. Bisogna ricordare che “nell’ultimo biennio è stato creato quasi un milione di nuovi posti di lavoro alle dipendenze nel settore privato non agricolo (al netto delle cessazioni). La ripresa ha riassorbito completamente la caduta causata dall’emergenza sanitaria: lo scorso marzo il numero di contratti attivati è tornato sul sentiero di crescita che si sarebbe registrato se tra il 2020 e il 2022 l’evoluzione della domanda di lavoro si fosse mantenuta sugli stessi ritmi del periodo 2018-19”, così ricorda il paper del Ministero del Lavoro.
Mercato del lavoro in ripresa
Il mercato del lavoro è ripartito, le imprese assumono o cercano di assumere professionalità scarsamente rinvenibili, e per questo molto ricercate, ma al contempo la volatilità dei rapporti di lavoro tende ad aumentare. Se da un lato il COVID ha scosso l’intero sistema economico provocando una crisi profonda, dall’altro ha dato il via a nuove (o rinnovate) opportunità obbligando a rivedere alcuni paradigmi lavorativi, accelerando sia il processo di digitalizzazione, sia le azioni di responsabilizzazione delle persone mediante lo smart working.
Se fino a un po’ di tempo fa gli analisti dei trend definivano lo stato del mercato del lavoro con l’acronimo VUCA, ossia Volatile (volatile), Uncertain (incerto), Complex (complesso), Ambiguous (ambiguo) oggi preferiscono utilizzare quello di BANI, ossia Brittle (fragile), Anxious (ansioso), Non-linear (non lineare) e Incomprehensible (incomprensibile).
Una recente ricerca effettuata Linkedin ha evidenziato, pur nel contesto generale di incertezza, una sorta di rinnovata sicurezza verso nuovi scenari lavorativi. La tecnologia ha aiutato i lavoratori italiani ad adattarsi e, in parte, li ha resi più sicuri delle proprie capacità. Una condizione che li ha portati a riflettere su quali fossero veramente i loro bisogni lavorativi. Da qui la spinta a lasciare l’azienda di appartenenza per cercare nuovi approdi che potessero produrre miglioramenti non solo in termini economici ma soprattutto della qualità della vita e del rapporto tra i tempi lavorativi e quelli personali. Nella citata ricerca di Linkedin quasi la metà (48%) degli intervistati ha dichiarato che prenderebbe in considerazione l’idea di cambiare la sua posizione lavorativa attuale per una con un salario maggiore. Ma, di poco sotto, il 38% ha dichiarato che lo farebbe per un migliore equilibrio tra la vita personale e quella lavorativa.
Sul ruolo della contrattazione aziendale vedi anche:
“Premi di risultato 2023: il risparmio con la conversione in welfare aziendale”
“Premi di risultato: come accedere all’agevolazione nel 2023”
I temi della contrattazione collettiva
Davanti a questi scenari anche le tradizionali dinamiche contrattuali devono avviare profondi ripensamenti sui temi trattati e sul ruolo stesso della trattativa. La pandemia ha costituito uno spartiacque. Oggi si prova davvero allergia per quei rituali stanchi che servono solo a far sopravvivere sé stessi. L’utilità diventa il bene prezioso da perseguire, senza sprechi. Né di tempo né di denaro. Entrambi valori non più nella disponibilità aziendale.
Il XXIV Rapporto Mercato del lavoro e Contrattazione collettiva, rilasciato dal CNEL alla fine del 2022, dedica un intero capitolo alla contrattazione collettiva decentrata. Nel documento si analizzano i dati dal punto di vista quantitativo e qualitativo. Nel “borsino” dei temi trattati c’è chi sale e chi scende. Fra i temi che rimangono costanti nel tempo, una sorta di evergreen, troviamo argomenti come: il salario, le misure volte a fronteggiare la crisi d’impresa e l’occupazione, l’orario di lavoro e la sua organizzazione, i diritti sindacali e d’informazione. In forte ascesa invece: il welfare aziendale e flexible benefit, le richieste di armonizzazione dei tempi personali e lavorativi, i protocolli di sicurezza, i premi di risultato, la regolamentazione dello smart working con particolare attenzione al diritto alla disconnessione. Capitolo a parte vale per i contratti di espansione che però ha generalmente coinvolto solo grandi aziende.
Come si sa le fotografie riprendono il passato, al più il presente, ma mai il futuro. Anche per questi dati vale lo stesso discorso. Nessun tema infatti affronta in modo decisivo la capacità aziendale di attrarre o mantenere i talenti o più semplicemente i giovani millenials o della generazione Z che sono quelli che maggiormente consentono alle aziende di guardare al futuro e intrecciare nel concreto le dinamiche del mondo telematico e quindi dell’innovazione. Sì, perché la contrattazione è fatta spesso da chi in azienda ci sta e ci vuole rimenare e non da chi ha in animo di salpare verso nuove avventure e, al contempo, la direzione aziendale non vede questo strumento come il più idoneo e dinamico per muoversi agilmente e con velocità. Una serie di tematiche invece avrebbe ben diritto di animare i dibatti tra RSU e direzione, avendo come pre-condizione, la condivisione dell’assioma che il lavoro si difende con la competitività dell’impresa e non con le rendite di posizione e di mercato.
Pensiamo alla cosiddetta settimana cortissima, quella articolata su quattro giorni, con orario complessivo ridotto ma con salario inalterato. Qui lo scambio non sarebbe più maggior produttività vs maggiori salari ma vs maggior tempo libero. Proprio la variabile tempo è una di quelle che oggi sta riscuotendo il maggiore interesse presso i giovanissimi lavoratori.
Un esempio di Intesa Sanpaolo
Prendiamo il caso di Intesa Sanpaolo. La discussione sindacale si muove sulla proposta della Direzione di aumentare su base volontaria il lavoro flessibile, non svolto in azienda, fino a 120 giorni all'anno, con un'indennità di buono pasto di 3 euro al giorno, per tener conto anche delle spese sostenute lavorando da casa, e di lavorare 4 giorni a settimana aumentando a 9 le ore giornaliere su base volontaria, a parità di retribuzione, senza obbligo di giorno fisso. Il tema è oggetto di confronto e da parte sindacale sembrano arrivare più distinguo che consensi. Nel resto d’Europa il tema è già in sperimentazione. Nel Regno Unito, il Paese che sta spingendo maggiormente l’acceleratore sulla questione, a partire dallo scorso giugno, è stata avviata una sperimentazione che coinvolge circa 3.300 lavoratori e 70 aziende. Il progetto pilota, organizzato dalla ong 4 Day Week Global assieme al think tank Autonomy e alle università di Cambridge, Oxford e Boston, si basa sul cosiddetto modello 100:80:100. Ossia lo stipendio resta a 100, le ore lavorate scendono a 80 ma la produttività deve restare a 100. Win win. Si vince tutti. La formula non è la reiterazione del vecchio motto sindacale “lavorare meno lavorare tutti” perché non prevede una maggiore occupazione ma un minor numero di ore lavorate a fronte di un mantenimento dei livelli di produttività.
Il welfare
Il tema del welfare aziendale e dei fringe benefits poi avrà sicuramente una attenzione crescente da parte della contrattazione aziendale. Anche in questo caso sembrano archiviate le resistenze sindacali connesse a un ridotto versamento contributivo, con influenza sui futuri trattamenti pensionistici, a fronte una maggiore utilità immediata verso bisogni più vicini in termini temporali ai lavoratori. Dalla sanità all’istruzione, dalla cultura alla gestione del tempo libero. La contrattazione aziendale in questo caso dovrebbe avere la lungimiranza di ampliare i confini oltre lo spazio dello stabilimento per connettersi al territorio coinvolgendo anche gli esercizi economici locali che spesso sono tagliati fuori da servizi trasferiti via web. Interessanti iniziative si stanno diffondendo, ci piace ricordare quella che parte dalla Sardegna, da Olbia dove parti sociali, Comune, esercizi commerciali stanno dando vita a una rete di benefits che parte dall’impresa e ricade sul territorio stesso.
Il PNRR
Da ultimo le sollecitazioni del PNRR. Tante le spinte per gli investimenti che per essere intercettate dalle imprese richiedono pre-condizioni di trasparenza e sostenibilità certificate. Anche in questo caso sarebbe un’occasione persa da parte della contrattazione aziendale non essere protagonista di un miglior posizionamento sul mercato dell’impresa che parta dal rispetto delle condizioni di sicurezza degli impianti e finisca con il rispetto della parità di genere oggi certificabile con lo schema PDR 125 e con i conseguenti vantaggi economici e competitivi che lo stesso si porta dietro.
Transizione digitale e ChatGPT
Nel PNRR troviamo poi la spinta alla transizione digitale con le evidenti innovazioni di processo che partendo da Industria 4.0 si spingeranno verso l’inserimento nei cicli lavorativi di robotica spinta e intelligenza artificiale. Oggi siamo tutti impazziti per ChatGPT che lascia solo intravedere la rivoluzione che da qui a pochissimo travolgerà il mondo della produzione e dei servizi. L’innovazione però spaventa. La reazione del mondo del lavoro spesso è scomposta. Il timore è quello di ridurre gli spazi occupazionali a fronte di un intervento invasivo della tecnologia. Fino a oggi però non è stato così. I processi innovativi, dunque, portano con sé dubbi e incertezze da parte del personale che vede come “invadente” l’utilizzo di sistemi nuovi. Sistemi che, in questo caso, possono monitorare processi, analizzare performance e surrogarsi al lavoratore ove questo risultasse inefficiente. Ecco, dunque, lo spazio che si apre alla mediazione sindacale, il ruolo della camera di compensazione rappresentata dalle intese aziendali in cui si compongono esigenze diverse ma che necessitano di essere contemperate. La mediazione sindacale potrebbe fornire quelle giuste garanzie per veleggiare insieme, forza lavoro e direzione, anche perché se l’innovazione non passa convintamente per le persone non determina alcun effetto positivo in azienda.