Attività di impresa e dichiarazione di fallimento: una incompatibilità solo apparente
Storicamente esercizio della impresa e fallimento si sono sempre posti nel loro accostamento quali figure difficilmente compatibili giacché il fallimento esprimeva una drastica soluzione di discontinuità nell'attività di impresa, espressa anche nella classica metafora del patrimonio che, colpito dalla insolvenza, viene per provvedimento giudiziario a cristallizzarsi in una sopravvenuta artificiale immobilità.
L'apparente contraddizione tra gestione e liquidazione poteva infatti superarsi organizzando una gestione della impresa nel fallimento finalizzata alla conservazione del valore aziendale così da permettere una proficua vendita dell'azienda sul mercato.
In tal senso sono stati concepiti istituti forgiati dalla prassi e infine accolti anche nell'ordito della legge fallimentare quali l'esercizio provvisorio dell'impresa, l'affitto dell'organizzazione di impresa (dell'azienda) a terzi affinché fosse comunque assicurata l'attività gestoria; infine, la vendita dell'azienda così conservata nel suo complessivo valore organizzativo. E' proprio la finalità liquidatoria che ha consentito di allineare, seguendo nella loro successione gli articoli della legge, tre istituti da concepirsi come tappe di un disegno unitario: esercizio provvisorio della impresa; affitto e infine vendita dell'azienda medesima, già conservata in efficienza e infine ricollocata sul mercato ed aperta a nuove possibilità di azione.
Tale novità si innesta nella rielaborazione dell'impianto normativo del R.D. 16 marzo1942, n. 267 attuata sin dal D.lgs. 5/2006, in quadrandosi perfettamente nell'ambito di un'economia moderna di mercato dove la insolvenza, da prodotto di una condotta dolosa o irresponsabile dell'imprenditore o di una cattiva organizzazione aziendale, sanzionata con la cessazione dell'impresa e con l'eliminazione dell'imprenditore dal contesto economico, veniva ad essere considerato fenomeno naturale, anzi fisiologico, di una economia moderna sempre più fondata sulla interrelazione tra i sistemi di mercato conseguente alla globalizzazione. Ecco dunque che sul modello di altre legislazioni straniere, il baricentro della legge fallimentare con le riforme succedutesi tra il 2006 e il 2012 si è spostato dall'imprenditore alla impresa intesa come organizzazione di beni e persone che assume un indubbio valore sociale per il mantenimento dei livelli produttivi ed occupazionali, al cui vertice si colloca l'imprenditore che, investendo il proprio denaro, si assume il rischio economico dell'attività.
La collocazione della impresa come centro di riferimento di una pluralità di interessi non solo economico produttivi (quale quello specifico al profitto imprenditoriale) ma anche sociali (quali il mantenimento dei livelli occupazionali), aveva consentito di superare la vecchia contrapposizione tra tutela dei creditori e conservazione dell'azienda prevedendo una disciplina della crisi della impresa incentrata sul principio della conservazione e salvaguardia dei valori aziendali.
Continuità dell'attività di impresa e liquidazione giudiziale
Il mutamento di prospettiva prodotto dalla prima importante riforma fallimentare ha profondamente inciso sulla disciplina dell'esercizio provvisorio che, unitamente alla previsione dell'affitto di azienda e della vendita, ha costituito un importante traguardo del diritto italiano riformato nell'ultimo decennio. Tuttavia, nessuno dei citati istituti ha effettivamente scalzato il principio storicamente consolidato secondo cui l'effetto della cessazione dell'impresa era da considerarsi come effetto naturale dell'apertura del fallimento.
Il Codice della Crisi di impresa e dell'insolvenza ha, sotto questo profilo, apportato una importante novità. L'art. 211, comma 1, del CCI stabilisce che l'apertura della liquidazione giudiziale non determina la cessazione dell'attività d'impresa quando ricorrono le condizioni fissate nei due commi successivi. Si prevede infatti che con la sentenza che dichiara aperta la liquidazione giudiziale, il tribunale autorizza il curatore a proseguire l'esercizio dell'impresa, purché non arrechi pregiudizio ai creditori (secondo comma art. 211 CCI) e inoltre che, successivamente, su proposta del curatore, il giudice delegato, se vi è parere favorevole del comitato dei creditori, autorizza l'esercizio dell'impresa (comma 3).
La nuova regola introdotta dal Codice è quella per cui l'apertura della liquidazione giudiziale, pur producendo l'effetto dello spossessamento dell'imprenditore, non determina anche la cessazione dell'attività la quale prosegue sotto la gestione diretta del curatore e sotto il controllo del comitato dei creditori e del giudice delegato. Viene eliminato il termine ‘provvisorio' a significare che la prosecuzione della attività di impresa da evento ‘provvisorio ‘ed eccezionale diventa nella liquidazione giudiziale un evento normale, sempre che al momento della apertura della procedura l'impresa sia ancora in attività.
Nel codice della crisi e dell'insolvenza l'impresa continua a meno che la prosecuzione dell'attività non pregiudichi gli interessi dei creditori, determinando perdite ulteriori e un maggior depauperamento del patrimonio del debitore. L'unico limite alla prosecuzione dell'impresa è dunque la sussistenza di un pregiudizio per i creditori, che va valutato tenendo conto dei risultati complessivi dell'intera procedura dovendosi affiancare ai risultati dell'esercizio di impresa il plusvalore derivante dalla alienazione di un complesso funzionante in luogo di una cessione atomistica dei beni.
Come nella legge fallimentare, anche nel Codice la prosecuzione della impresa può essere disposta successivamente all'apertura della procedura dichiarazione da parte del giudice delegato, su istanza del curatore e previo parere del comitato dei creditori.
In tale caso, la decisione sulla prosecuzione dell'impresa è rimessa al preventivo parere del comitato dei creditori ed è quindi condizionata alla primaria tutela degli interessi dei creditori alla massima valorizzazione dell'azienda nella prospettiva liquidatoria (art. 213, terzo comma CCI). In tale fattispecie (già delineata dal secondo comma dell'art. 104 l. fall), un ruolo centrale assume la proposta di prosecuzione dell'attività di impresa che il curatore deve formulare al comitato dei creditori fini di acquisire il relativo parere da porre a base della successiva istanza al giudice delegato. Mentre l'abrogato articolo 90 l. fall. qualificava espressamente come vincolante il parere del comitato dei creditori ove questo fosse stato negativo, con la conseguenza che il tribunale non poteva che escludere l'esercizio provvisorio, mantenendo invece assoluta discrezionalità in ipotesi di parere positivo, l'art. 211, terzo comma CCI si limita ad affermare che il giudice delegato autorizza la continuazione dell'attività, previo parere favorevole del comitato dei creditori. L'interpretazione più corretta è quella per la quale anche nella fattispecie come delineata dal terzo comma art. 211 CCI, il parere del comitato dei creditori è sempre vincolante ove negativo, dovendo curatore e giudice delegato evitare il rischio di utilizzare risorse della procedura per la continuazione dell'attività con la contraria opinione dei creditori, benché questi ultimi rappresentati in un organo collegiale ristretto. Laddove invece il parere sia positivo, secondo una condivisibile interpretazione il provvedimento di autorizzazione alla continuazione dell'attività non sarebbe un atto dovuto da parte del giudice delegato che mantiene una propria discrezionalità nella valutazione in ordine alla legalità formale e sostanziale.
La gestione dell'impresa nella liquidazione giudiziale
L'art. 211 CCI, come già l'art. 104 l. fall. non contiene una disciplina specifica sulla gestione della impresa nell'ambito della procedura di liquidazione.
La prosecuzione di impresa si realizza nel contesto di una procedura concorsuale, quella di liquidazione giudiziale, caratterizzata dal regime giuridico dello spossessamento.
Ecco dunque che le regole sulla gestione della impresa (e quindi le norme del diritto societario) si conformano al contesto procedurale in cui l'impresa stessa opera. Mentre nella procedura di concordato l'impresa continua ad essere gestita dal debitore sotto la vigilanza degli organi di procedura, nella procedura di liquidazione giudiziale l'impresa è gestita dal curatore, il quale opererà in considerazione della esigenza che le sue decisioni operative siano finalizzate alla liquidazione patrimoniale per il soddisfacimento dei creditori.
Nel sistema disegnato dal legislatore sin dalla riforma del 2006, e ripreso dal CCI, il curatore è organo gestore della procedura fallimentare su cui grava la responsabilità dei risultati della gestione della procedura stessa. L'ordito normativo manifesta in più punti l'importanza del ruolo del curatore e la responsabilità connessa allo svolgimento della funzione.
L'art. art. 128 CCI infatti, che precede l'art. 136 CCI sulla responsabilità del curatore attribuisce a quest'ultimo il potere di amministrare il patrimonio del debitore; potere che dovrà essere esercitato secondo criteri di ragionevolezza tipici della gestione dell'altrui patrimonio, ben potendo l'inottemperanza di tali criteri dare luogo a responsabilità risarcitoria del curatore. Tale norma va letta unitamente al successivo art. 132 rubricato “Integrazione dei poteri del curatore”. Dalla lettura sistematica delle citate disposizioni di legge risulta che l'attività̀ del curatore può distinguersi in attività̀ di ordinaria gestione, per la quale il curatore non necessita di preventiva autorizzazione; attività̀ di straordinaria gestione, potenzialmente idonea a determinare la diminuzione o la dispersione dei beni destinati alla liquidazione, rispetto ai quali occorre la condivisione e l'approvazione del comitato dei creditori; infine atti di straordinaria gestione, economicamente rilevanti per i quali occorre l'autorizzazione del comitato dei creditori, previa informativa al giudice delegato.
Nell'esecuzione dell'incarico il curatore è tenuto ad osservare, da un lato, il dovere generico di corretta amministrazione, cui si ricollega la responsabilità̀ risarcitoria ogni qual volta il danno scaturisce da scelte palesemente irrazionali (ovvero in caso di mancata adozione di cautele, verifiche e informazioni preventive necessarie in occasione del compimento di una precisa scelta gestoria); dall'altro, l'obbligo di amministrare in modo soddisfacente il patrimonio del debitore sottoposto a procedura, che, invece, se non osservato può indurre alla revoca del curatore.
La disciplina dell'attività di impresa nel contesto della procedura di liquidazione giudiziale
Se le regole del diritto societario inerenti la governance della impresa sono modificate e talora disapplicate per lasciare posto alle norme della procedura di liquidazione giudiziale, la disciplina dell'attività di impresa come attività di produzione e scambio di beni o servizi non può che svolgersi secondo le norme del codice civile e, segnatamente, secondo il diritto delle obbligazioni e contratti, pur adattato al contesto procedurale.
Ciò è ben evidente nella disciplina dei contratti in corso di esecuzione in base alla quale se il curatore nella procedura di liquidazione giudiziale decide di proseguire nei rapporti contrattuali instaurati dal debitore, le norme di riferimento sono quelle del diritto civile (artt. 172-192; art. 211 ottavo comma, CCI).
Nell'intervento di riforma attuato tra il 2005-2007, il legislatore si era preoccupato di porre rimedio alla lacuna prevista nel RD 267/1942 sia riscrivendo la regola generale dell'art. 72 (non più̀ dedicato alla vendita e significativamente rubricato rapporti pendenti) sia disciplinando innovativamente figure classiche sia introducendo nuove figure, ormai note alla prassi; sia, infine, prevedendo una disciplina specifica per l'ipotesi di esercizio provvisorio.
La regola ripresa dal CCI è quella per cui, ai fini dell'applicazione della disciplina dei contratti pendenti il contratto deve essere, in tutto in parte, non eseguito da entrambe i contraenti: in tale ipotesi l'esecuzione rimane sospesa finché il curatore, autorizzato dal comitato dei creditori, non dichiari di subentrare nel contratto, assumendone tutte le obbligazioni, oppure di sciogliersi dal vincolo (bilaterale in esecuzione del contratto).
La decisione sulla prosecuzione o meno del rapporto contrattuale in corso di esecuzione è quindi rimessa al curatore a cui il diritto concorsuale attribuisce il diritto potestativo di scelta (artt. 172-192 CCI).
Tale diritto potestativo è riconosciuto al curatore quale gestore della impresa in prosecuzione con la differenza che, nel caso, lo spazio di scelta del curatore è del tutto eventuale atteso che l'art. 211, ottavo comma CCI, prevede la prosecuzione dei contratti e il subentro automatico per legge del curatore senza necessità di autorizzazione alcuna. La regola, chiaramente volta a garantire la prosecuzione dell'attività̀ di impresa difficilmente compatibile con il regime della sospensione del contratto e con la necessità di autorizzazione da parte degli organi di procedura, ha posto problemi di natura interpretativa collegati, tra l'altro, alla disciplina della prosecuzione dell'attività del debitore. Se nella ipotesi di prosecuzione dell'attività in quanto disposta dal Tribunale ovvero autorizzata ex art. 211, secondo comma CCI, i rapporti proseguono normalmente, salvo che nelle settimane successive all'esito di una puntuale analisi sulla economicità̀ o meno dei contratti stessi il curatore non decida di sciogliersi; nella ipotesi in cui la prosecuzione sia disposta successivamente su istanza del curatore il rischio è che, per effetto della apertura della procedura alcuni contratti risultino già̀ sciolti o perché́ detto scioglimento è previsto automaticamente dalla legge (si pensi all'ipotesi del contratto di conto corrente o di commissione) o perché́ effetto di una scelta compiuta dal curatore.
In considerazione della prosecuzione dei contratti nell'ambito dell'esercizio della impresa, il curatore resta assoggettato alla disciplina civilistica e risponde di tutte le obbligazioni che sarebbero gravate sul debitore; pertanto sarà̀ tenuto all'adempimento di tutti gli obblighi previsti nel contratto, tra i quali il pagamento dei crediti sorti nel corso dell'esercizio di impresa, soddisfatti in prededuzione. Si comprendono allora le esigenze che hanno portato il legislatore ad attribuire comunque un generale potere di scioglimento per il caso in cui la prosecuzione del singolo rapporto si riveli antieconomica e anzi dannosa per l'interesse dei creditori; tale conclusione è tanto più vera se si considera che secondo parte della dottrina sarebbero da considerare crediti prededucibili anche quelli scaduti al momento della dichiarazione di fallimento ma riferiti a contratti in corso di esecuzione in cui sia subentrato il curatore. La questione si pone con particolare riferimento al contratto di durata caratterizzato da prestazioni periodiche o continuative.
La tutela degli interessi dei creditori come stella polare della prosecuzione dell'attività
Nel CCI la prosecuzione dell'esercizio dell'impresa soggetta a liquidazione giudiziale – a differenza che nella legge fallimentare - non costituisce più un'eccezione, ma è la regola.
Tuttavia, l'unico parametro al quale rapportare la decisione di autorizzare la prosecuzione dell'attività o di farla cessare è quello dell'interesse del ceto creditorio a conseguire il miglior soddisfacimento dei crediti vantati. Ed è tale interesse a costituire la stella polare della decisione del tribunale di autorizzare la prosecuzione in tutti i casi in cui non vi siano elementi concreti per far ritenere che da essa derivi un pregiudizio per i creditori; come pure del curatore e del comitato dei creditori.
Così archiviata la incompatibilità tra ‘fallimento' come strumento di selezione delle imprese efficienti sul mercato, e prosecuzione di impresa, come pure la coincidenza tra soggetto, imprenditore, e oggetto, impresa, nella prospettiva del Codice della crisi di impresa nel quale la prosecuzione dell'attività di impresa è regola e non più eccezione, ecco che il subprocedimento del concordato nella liquidazione giudiziale potrebbe rappresentare, come evidenziato da autorevole dottrina, «una possibile alternativa allo stesso [modello liquidatorio base] per la gestione e la sistemazione dell'insolvenza che sia stata accertata giudizialmente, da attuare subito dopo tale accertamento» .