martedì 15/11/2022 • 12:00
Il regime degli impatriati, secondo l'Agenzia delle Entrate, non può essere applicato al dipendente che, trasferita la residenza fiscale in Italia, inizia a lavorare senza aver ricevuto dal datore di lavoro una formale offerta di impiego o altra intesa documentata prima di trasferirsi in Italia.
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Il regime degli impatriati, secondo la posizione dell'Agenzia delle Entrate confermata in risposte di interpello non pubblicate, non è applicabile al dipendente che si trasferisce in Italia per lavorare senza aver raggiunto, prima del trasferimento, un formale accordo di impiego con il datore di lavoro. L'accordo può essere una qualsiasi intesa formale raggiunta prima del trasferimento in Italia che può assumere, per esempio, la forma di una proposta di assunzione o di un contratto preliminare di lavoro purché documentabili.
La richiamata interpretazione va tenuta debitamente in considerazione sia dai dipendenti che, non conoscendo la posizione dell'Agenzia delle Entrate, stanno applicando il regime, pur non avendo alcuna intesa formale con il datore di lavoro, sia dai lavoratori che intendono trasferirsi in Italia per motivi di lavoro e beneficiare del regime. Nel primo caso i datori di lavoro e i dipendenti, che già applicano il regime degli impatriati, dovranno rivalutare la situazione alla luce del possibile recupero di imposta con applicazione di sanzioni e interessi in caso di accertamento. Nel secondo caso, i datori di lavoro e i dipendenti, che intendono applicare il regime, dovranno formalizzare un'intesa prima del trasferimento, essendo ritenuta una condizione necessaria per l'applicazione del regime.
Nesso causale tra trasferimento e inizio attività lavorativa
Il regime degli impatriati, in base a quanto previsto dall'art. 16 c. 1 D.Lgs. 147/2015, consente di tassare solo una porzione, pari al 30% ridotta al 10% in caso di trasferimento al Sud Italia, del reddito di lavoro prodotto nel territorio italiano. In particolare, secondo quanto previsto dal testo normativo, il regime si applica ai lavoratori che soddisfano congiuntamente le seguenti condizioni:
L'Agenzia delle Entrate in una serie di documenti di prassi, iniziando con la Circ. AE 23 maggio 2017 n. 17 (cfr. Parte II, § 3.1), oltre alle richiamate condizioni previste dal testo normativo, considera necessario un ulteriore requisito ossia l'esistenza di un collegamento tra il trasferimento della residenza e l'inizio dell'attività lavorativa. Il termine collegamento, secondo la Risp. Interpello 7 ottobre 2021 n. 683, va inteso come nesso causale tra il trasferimento della residenza e l'inizio dell'attività lavorativa. Ciò escluderebbe, per esempio, il mero nesso temporale tra il trasferimento e l'inizio dell'attività lavorativa, essendo necessario un legame causa effetto tra trasferimento e inizio dell'attività lavorativa.
Muovendo secondo tale direzione, l'Agenzia delle Entrate in alcune risposte ad interpello non pubblicate ha ritenuto non applicabile il regime degli impatriati nel caso il trasferimento in Italia non sia stato concretamente preceduto da un'intesa con il datore di lavoro. L'indicazione interpretativa rappresenta un'evoluzione, ulteriormente restrittiva, della Risp. Interpello 13 febbraio 2020 n. 59. Nel documento di prassi richiamato da ultimo, il collegamento tra il trasferimento della residenza e l'inizio dell'attività lavorativa era stato ritenuto sussistere in presenza di un precontratto di lavoro.
In quella occasione l'Agenzia non aveva, tuttavia, precisato che il precontratto o altra intesa prima del trasferimento fosse l'unico modo per dimostrare il collegamento e che, quindi, il nesso causale non potesse essere provato in base altri fattori, come per esempio un ristretto lasso temporale tra il trasferimento e l'inizio dell'attività lavorativa, oppure da altri fatti e circostanze che provassero l'intenzione del dipendente di trasferirsi in Italia per motivi di lavoro.
Conseguenze della restrittiva interpretazione
Le conseguenze di questa interpretazione restrittiva sono molto dure, in quanto difficilmente tutti i soggetti oggi beneficiari del regime hanno ricevuto un'offerta di lavoro, prima di trasferirsi, oppure sono in grado di documentarla.
Se la richiamata Circ. AE 17/E del 2017, tra le righe, sembrava richiedere un generico collegamento tra il trasferimento e l'inizio dell'attività lavorativa – da intendersi come una ragionevole connessione di tipo temporale oppure legata all'intenzione del lavoratore, rinvenibile in fatti e circostanze – oggi l'Agenzia delle Entrate rende tale requisito un possibile sbarramento, avendo chiarito che il collegamento va inteso come nesso causale presente esclusivamente qualora il lavoratore sia in grado di documentare un'intesa con il datore di lavoro.
Gli effetti di questa interpretazione finiranno per colpire i cittadini Italiani e, per certi versi i cittadini comunitari, (ri)trasferiti in Italia. I cittadini extra UE, infatti, possono trasferirsi in Italia per motivi di lavoro soltanto dopo aver ottenuto il nulla osta al lavoro e, quindi, il loro trasferimento in Italia presuppone l'esistenza di una proposta di impiego con un datore italiano.
Il risultato dell'interpretazione restrittiva sarebbe quello di contraddire non solo la ratio della normativa di favore, che vuole riportare in Italia cittadini italiani e comunitari, ma potrebbe essere vista come una restrizione alla libera circolazione delle persone nell'UE, contravvenendo agli stessi principi su cui si basa l'Unione Europea.
Interpretazioni non sorrette dal testo normativo
Il requisito del collegamento non trova alcuna esplicitazione nel testo normativo, mentre il legislatore ha declinato dettagliatamente le altre condizioni necessarie per l'applicazione del regime. L'Agenzia delle Entrate, partendo da un generico riferimento al collegamento tra le righe della Circ. n. 17/E del 2017, giunge successivamente a richiedere un preciso nesso causale tra il trasferimento e l'inizio dell'attività lavorativa, aggiungendo che tale nesso esiste esclusivamente in presenza di un'intesa formale con il datore di lavoro prima del trasferimento del lavoratore.
L'individuazione di ulteriori requisiti, da parte dell'Agenzia delle Entrate interpretando il testo normativo dell'art. 16 del D.Lgs. 147/2015, si rinviene nei documenti di prassi anche per negare l'applicazione del regime degli impatriati ai lavoratori che rientrano da un distacco estero, in caso vi sia continuità tra precedente posizione lavorativa e quella dopo il trasferimento.
Le pronunce giurisprudenziali, fino ad ora reperibili in merito all'applicazione del regime degli impatriati in caso di rientro dopo il distacco estero, hanno ritenuto l'interpretazione dell'Agenzia delle Entrate non corretta. In questo senso la CTP Milano 6 aprile 2022 n. 1479 ha considerato erronea l'interpretazione dell'Agenzia delle Entrate, in quanto non supportata dalla lettera e dalla ratio dell'art. 16 D.Lgs. 147/2015. La disposizione secondo la CTP: “la cui ratio è favorire il rientro in Italia di lavoratori italiani che abbiano prestato all'estero la propria attività lavorativa - non fa riferimento alla necessità di stipula di un nuovo contratto di lavoro”, condizione richiesta dall'Agenzia delle Entrate.
La diversa posizione di prassi e giurisprudenza, nel caso di distacco, pone il dubbio circa la corretta interpretazione anche del requisito del collegamento, essendo privo di supporto dalla lettera della disposizione, nonché non allineato con la ratio legis, con i rischi di limitare e restringere la libera circolazione nell'ambito dell'Unione Europea.
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