I concetti di crisi ed insolvenza, nell'accezione reversibile ed irreversibile, hanno in passato affannato la dottrina e la giurisprudenza alla ricerca di soluzioni che consentissero di individuare i rapporti fra di esse e, di conseguenza, la “crisi minima rilevante” (e con essa la distinzione fra crisi e pre-crisi) per l'accesso alle procedure di risanamento.
Il codice della crisi solo all'apparenza fornisce una soluzione normativa a questi problemi; anzi, l'aver codificato la pre-crisi senza definirla in modo compiuto pone ulteriori questioni di difficile soluzione.
Purtuttavia, è possibile sostenere che le due definizioni che abbiamo (crisi ed insolvenza), unitamente all'individuazione della collocazione temporale della pre-crisi, concetto di non facile (se non impossibile) definizione, siano sufficienti a dare vita ad un sistema coerente, nel quale non dovrebbe trovare più posto l'insolvenza reversibile.
Il nuovo codice della crisi
Il codice della crisi fornisce, all'art. 1, c. 2, le definizioni di crisi («lo stato del debitore che rende probabile l'insolvenza e che si manifesta con l'inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte alle obbligazioni nei successivi dodici mesi») e di insolvenza («lo stato del debitore che si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni»).
L'art. 12, c. 1, invece, individua, fra i presupposti oggettivi per l'accesso alla composizione negoziata della crisi, la sussistenza di situazioni di «squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che … rendono probabile la crisi o l'insolvenza». Dunque, si contempla ancora una volta la crisi ma se ne anticipa la rilevanza, dandosi rilievo anche alla pre-crisi, di cui, tuttavia, si rinuncia a fornire una definizione compiuta.
Crisi ed insolvenza con la legge fallimentare
Come è noto, nella vigenza della legge fallimentare i rapporti fra pre-crisi, crisi ed insolvenza erano stati complessi: in origine non era chiaro, infatti, se quest'ultima fosse compatibile (o meno) con finalità di risanamento (di qui la distinzione fra insolvenza reversibile/compatibile ed irreversibile/incompatibile), mentre la nuova formulazione dell'art. 160 L. fall., il quale aveva introdotto lo «stato di crisi», lungi dal risolvere la questione, aveva dato vita a dispute vivaci in ordine ai rapporti fra quest'ultimo e lo stato di insolvenza nella duplice “versione” reversibile/irreversibile.
La questione non era solo teorica: a seconda della soluzione scelta, infatti, era destinato a spostarsi “in avanti”, ossia verso l'insolvenza, o “indietro”, vale a dire verso una crisi “non piena” (la pre-crisi), il presupposto oggettivo di ammissione alla procedura di concordato preventivo. Prima ancora, si poneva il fondamentale problema di individuare la “crisi minima rilevante”, ossia quello di stabilire dove si collocava la sottile linea di demarcazione fra la crisi di cui all'art. 160 l. fall. e la pre-crisi, ossia uno stato (irrilevante) che di crisi ancora non è.
Il codice della crisi “riveduto e corretto” pare avere posto fine al dibattito, ponendo, come si è visto, le definizioni di crisi e di insolvenza, dall'esame delle quali sembra emergere che il Legislatore abbia accolto la tesi che considera la prima come concetto autonomo, solo collegato alla seconda.
Così, tuttavia, non è.
La crisi è insolvenza?
Per l'accesso al concordato preventivo, anche con continuità aziendale, l'imprenditore deve trovarsi «in stato di crisi o di insolvenza» (art. 84, c. 1), ma pare incompatibile con la suddetta continuità una condizione di insolvenza che non sia reversibile: l'art. 87, c. 1 lett. e), infatti, richiede che, in ipotesi di continuità aziendale, il piano indichi, «il piano industriale con l'indicazione degli effetti sul piano finanziario e dei tempi necessari per assicurare il riequilibrio della situazione finanziaria».
Insomma, la norma esprime chiara l'idea che il risanamento dell'impresa è inconciliabile con uno stato di insolvenza che sia irreversibile.
Ritorna, allora, con riferimento al concordato, la distinzione fra insolvenza reversibile ed irreversibile e, di conseguenza, quella fra crisi irreversibile, crisi come stato che rende probabile l'insolvenza e crisi che, sebbene esteriorizzata, si traduce in una mera difficoltà finanziaria transitoria. Il tutto con la con la pre-crisi, ossia con la crisi irrilevante, a segnare il limite “verso il basso” e l'insolvenza irreversibile a segnare quello “verso l'alto”.
Il codice, però, fa oggi riferimento espresso anche alla pre-crisi: si codifica, dunque, un presupposto che, sebbene, come si è visto, abbia formato oggetto di dibattito, non ha precedenti normativi.
Tale scelta ha spinto la dottrina a cercare la definizione di questa probabilità, sul presupposto che, ancora una volta, la questione non pare puramente teorica. In difetto, infatti, si rischia di rendere il ventaglio delle situazioni oggettive rilevanti per l'accesso alle procedure di risanamento ed alla composizione negoziata (in positivo a quest'ultima; in negativo alle altre) talmente ampio che diventa difficile individuarne con certezza gli estremi: “a monte”, in assenza di una definizione, non è facile dare contenuto obiettivo alla pre-crisi, mentre “a valle” la probabilità di insolvenza presuppone il transito attraverso una serie indefinibile di difficoltà che possono essere anche sintomi di insolvenza vera e propria.
Insomma, si ripropone, e non solo con riferimento al concordato preventivo, il ben noto problema della “crisi minima rilevante”, ma ad esso se ne aggiunge uno, che del pari era ben noto: se la crisi sia anche insolvenza reversibile.
Sotto il primo profilo (la pre-crisi o “crisi minima rilevante”), il problema si pone perché la probabilità di crisi è un concetto di dubbia interpretazione, in quanto le due nozioni di crisi che abbiamo a disposizione - vale a dire quella oramai “a tempo” e generica (ed includente lo stato d'insolvenza) di cui all'art. 160, c. 3, L. fall. e quella specifica, riconducibile ad una «probabilità di insolvenza» di cui all'art. 2, lettera a), del codice - alla suddetta probabilità non fanno alcun riferimento e di essa non abbiamo una definizione.
“A valle” si pone un altro problema: individuare l'estremo opposto rispetto alla pre-crisi. Se, infatti, è pacifico che l'imprenditore insolvente può accedere alle procedure di risanamento ed al “percorso” della composizione negoziata, da più parti si è fatto riferimento alla sola insolvenza reversibile, l'unica compatibile con le prospettive, appunto, di risanamento. Detta insolvenza, però, è un concetto di per sé assai ambiguo, in quanto, siccome il disposto dell'art. 1 fa riferimento, avuto riguardo all'insolvenza, unicamente ad uno stato oramai cristallizzato ed irreversibile e, quanto alla crisi, ad una probabilità di insolvenza, che tale dunque non è ancora, diventa ineluttabilmente impossibile ricondurla nell'ambito dell'una (crisi) o dell'altra (insolvenza).
Insomma, così opinando il sistema non sarebbe coerente: tornerebbe, infatti, a livello generale, la distinzione fra insolvenza reversibile ed irreversibile e, con essa, quella fra crisi irreversibile, crisi come stato che rende probabile l'insolvenza (reversibile) e crisi che, sebbene manifestatasi attraverso inadempimenti, si traduce in una mera difficoltà finanziaria transitoria. Panel di situazioni già troppo vasto e dai contorni esterni assolutamente poco chiari al quale si aggiunge la pre-crisi di “nuovo conio”, concetto a sua volta assai labile. Il che renderebbe evidente come il Legislatore abbia finito per contraddirsi, operando “contaminazioni” fra le nozioni di pre-crisi, crisi ed insolvenza reversibile/irreversibile, e renderebbe il panel delle situazioni oggettive rilevanti privo di certi parametri di decodifica ad entrambi gli estremi: ad uno di essi, infatti, si colloca la pre-crisi, che non è definibile, ed all'altro l'insolvenza reversibile, che del pari fa fatica assai grande ad essere distinta dalla crisi. Insomma, del tutto paradossalmente si profilerebbe un sistema che tale non è, ossia riconducibile certamente alla unitaria crisi, ma pure alla “bifronte” insolvenza (reversibile/irreversibile), e delimitato “verso il basso” da una indefinibile probabilità della prima.
Purtuttavia, una soluzione è forse prospettabile.
Il concetto di pre-crisi
A ben vedere, non è importante andare alla ricerca di una definizione della pre-crisi, ma è essenziale unicamente collocarla temporalmente. Sotto questo profilo, sembra che la “pre-crisi” vada a collocarsi all'inizio della twilight zone, ossia, come si è correttamente affermato, nel lasso temporale in cui l'imprenditore si rende conto del fatto che, pure in assenza di inadempimenti o di squilibri, occorre immediatamente riprogrammare l'attività di impresa in chiave di discontinuità rispetto al passato. È, allora, una crisi “interna” all'impresa, ossia percepibile solo dall'imprenditore e da lui solo esternabile, che, se fino ad oggi era tendenzialmente rilevante solo ad excludendum (la sussistenza della crisi), diviene ora anche uno dei presupposti affinché si possa procedere con l'istanza di nomina dell'esperto.
All'estremo opposto, potrebbe ritenersi che sia irrilevante il concetto di insolvenza reversibile: l'insolvenza dell'imprenditore che accede alla composizione negoziata della crisi ed alle altre procedure di risanamento è tale, per cui non è necessario qualificarla come reversibile (o no), ed è uno dei presupposti di accesso purché siano perseguibili proprio le concrete prospettive di risanamento.
Insomma, sono ampiamente sufficienti le definizioni che abbiamo ed è necessario solo individuare la collocazione temporale della pre-crisi, senza tentare l'impossibile operazione di darne una definizione. Solo così opinando, infatti, il codice della crisi finisce per rispettare il principio secondo cui l'imprenditore deve essere messo in condizione di affrontare già la probabilità di crisi come da lui stesso individuata ed “intercettata”, mentre è l'insolvenza in sé, a determinate condizioni, a non essere un ostacolo al risanamento.