venerdì 29/07/2022 • 13:54
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 23231/2022 ha ritenuto che, qualora un soggetto sia l’effettivo possessore dei redditi formalmente intestati ad una società, allora a tale soggetto devono essere imputate le attività della società interposta e, con esse, le imposte e le sanzioni derivanti dalle violazioni commesse utilizzando lo schermo societario.
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La vicenda attenzionata dalla Suprema Corte con la Cass. 25 luglio 2022 n. 23231 ha ad oggetto una frode, relativa a scambi intraunionali di acquisto e rivendita di auto, con costituzione di una società (di capitali) cartiera fittiziamente interposta dall'amministratore di fatto della società, ritenuto l'autore materiale dell'illecito.
La questione da determinare era se e in quale misura l'attività, le imposte e le sanzioni della società potessero essere direttamente imputabili ad un soggetto distinto, ossia il materiale autore della frode, l'amministratore di fatto che utilizzava la società come soggetto interposto.
Imputazione delle sanzioni all'amministratore della società
Per quanto riguarda le sanzioni, i contribuenti contestavano che la loro imputazione all'amministratore della società, autore materiale della frode, trovasse un limite nell'art. 7 DL 269/2003, che prevede l'esclusiva riferibilità alla persona giuridica delle sanzioni amministrative relative al rapporto fiscale proprio di società o enti.
La Cassazione, per superare tale ostacolo e imputare le sanzioni all'amministratore di fatto, interpreta l'art. 7 DL 269/2003 nel senso che la norma torna applicabile solo qualora la persona fisica autrice della violazione abbia agito nell'interesse e a beneficio della società. Non si applica, invece, qualora il rappresentante o l'amministratore della società abbiano agito nel proprio esclusivo interesse, utilizzando l'ente come schermo (in tal senso concludono anche la Cass. 20 ottobre 2021 n. 29038, Cass. 13 novembre 2020 n. 25757 e Cass. 12 dicembre 2019 n. 32594). In tale ultimo caso, infatti, non vi sarebbe alcuna ragione per derogare al principio personalistico secondo cui la sanzione deve colpire l'autore materiale della violazione.
In ogni caso, al di là delle considerazioni sull'art. 7 DL 269/2003, più semplicemente potrebbe concludersi che, se il reddito della società è imputato alla persona fisica considerata interponente, allora è la persona fisica (che effettivamente possiede i redditi) ad evadere e non la società interposta.
Imputazione delle imposte all'amministratore della società
Per imputare le imposte all'amministratore della società cartiera, la Cassazione fa riferimento, come primo metodo utilizzabile, alla simulazione dell'atto costitutivo della società. Sennonché, la Suprema Corte nega l'applicabilità di tale metodo, rilevando come non sia configurabile la simulazione dell'atto costitutivo di una società di capitali, iscritta nel registro delle imprese. La società, infatti, non può essere considerata una mera fictio priva di realtà giuridica, poiché l'iscrizione della società nel registro delle imprese rende irrilevante la reale volontà dei contraenti ed esclude la possibilità di ravvisare una simulazione (in tal senso anche Cass. 14 novembre 2019 n. 29700 secondo cui «tale nuovo autonomo soggetto giuridico, una volta iscritto nel registro delle imprese, agisce coinvolgendo terzi a prescindere dalla volontà effettiva, vive di vita propria ed opera compiendo la propria attività per realizzare lo scopo sociale, a prescindere dall'intento preordinato dei suoi fondatori»).
Dopo questa premessa sulla simulazione, la Cassazione giunge così ad applicare l'art. 37 c. 3 DPR 600/73, che permette di imputare ad un contribuente i redditi di cui appaiono titolari altri soggetti quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni, che il contribuente in questione ne sia l'effettivo possessore per interposta persona. Tale norma, chiarisce la Cassazione, si applica «anche al reddito d'impresa e all'ipotesi in cui l'interposto sia una società di capitali, salva la necessaria specifica verifica della relazione di fatto tra contribuente e reddito per operare la traslazione del reddito d'impresa prodotto all'effettivo titolare». A tal fine, non basta che il soggetto interponente sia mero gestore dell'ente con personalità giuridica, ma deve poter disporre uti dominus delle risorse del soggetto interposto. L'Amministrazione deve infatti provare il totale asservimento della società interposta all'interponente e, così, dimostrare:
Irrilevanza del carattere fittizio o reale dell'interposizione
Il passaggio debole della sentenza si ha laddove la Suprema Corte giunge a sostenere l'irrilevanza della «dimostrazione che l'interposizione sia reale ovvero fittizia: l'art. 37, terzo comma, d.P.R. n. 600 del 1973, infatti, si riferisce a qualsiasi ipotesi di interposizione, anche a quella reale, ed anche ad un uso improprio di un legittimo strumento giuridico». Questo, anche sulla scorta di una giurisprudenza ormai consolidata in tal senso (cfr. Cass. 27 aprile 2021 n. 11055; Cass. 28 giugno 2018 n. 17128; Cass. 3 marzo 2017 n. 5408).
Ebbene, l'argomentazione della Corte, nel ricostruire l'ambito applicativo dell'art. 37 c. 3 DPR 600/73, pare fallace su quest'ultimo punto. L'orientamento ormai consolidato in giurisprudenza che sancisce l'irrilevanza della dimostrazione dell'interposizione reale o fittizia, è infatti errato. Tale orientamento:
Possibilità di ravvisare un mandato senza rappresentanza ai fini IVA
Infine, la Suprema Corte tratta il tema dell'IVA, ritenendo che «nell'esecuzione di servizi tra il soggetto gestore uti dominus e la società […] si instaura, quando il primo agisca in nome proprio ma per conto della seconda, un rapporto riconducibile al mandato senza rappresentanza, dove il mandatario è il gestore e il mandante è la società».
Sennonché, l'assimilazione al mandato non appare molto calzante nel caso di specie. L'amministratore di fatto non agisce infatti in nome proprio ma per conto della società. Il rinvio al mandato senza rappresentanza pare errato perché nel caso di specie non vi è un soggetto che può dare mandato, posto che la società cartiera non ha una propria autonomia e identità funzionale tale da poterla ricondurre a mandante dell'operato dell'amministratore di fatto, amministratore che, invece, agisce autonomamente disponendo della società e dei redditi da questa prodotti. Inoltre, non viene perseguito alcun interesse del mandante, posto che l'amministratore di fatto (quello che sarebbe qualificabile come mandatario secondo la Cassazione) agisce perseguendo un proprio interesse ed utilizzando la società come schermo.
Peraltro, nel caso di specie, il fatto che la società sia qualificata come cartiera pone altri problemi. Infatti, se la cartiera percepisce un corrispettivo per l'emissione di fatture false, allora svolge un'attività, seppure illecita, che la rende un operatore economico ai fini IVA; di conseguenza, l'imposta e le sanzioni sarebbero dovute dalla società e non dall'amministratore di fatto. Se, invece, la cartiera non percepisce alcun corrispettivo, allora non può dirsi che svolga un'attività economica (neanche illecita), quindi non sarebbe qualificabile come operatore economico; di conseguenza, ci si troverebbe fuori dall'ambito di applicazione dell'IVA, mancando il requisito soggettivo.
Fonte: Cass. 25 luglio 2022 n. 23231
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Diego De Gaetano
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