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sabato 23/07/2022 • 06:00

Lavoro Contrattazione collettiva

Nullo il CCNL che non garantisce una retribuzione minima dignitosa

La Corte di Appello di Milano interviene “a gamba tesa” nel dibattito sulla retribuzione minima e travolge anche per certi versi i contratti collettivi c.d. maggiormente rappresentativi, se anch'essi insufficienti ad assicurare al lavoratore e ai suoi familiari un'esistenza libera e dignitosa, così come previsto dalla Costituzione.   

di Marco Micaroni - Responsabile Relazioni Industriali di Autostrade per l'Italia s.p.a.

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La sentenza della Corte di Appello di Milano n. 580/2022 è di particolare rilevanza perché dichiara esplicitamente che anche uno dei contratti collettivi firmati dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative, se non risponde ad alcuni requisiti, per la parte relativa ai minimi tabellari, può essere dichiarato nullo, se non garantisce al lavoratore ed alla sua famiglia un'esistenza libera e dignitosa, secondo il principio costituzionale sancito dall'art. 36 Cost.  

Il giudizio in primo grado

Il Tribunale di Milano, con sentenza n. 1697/2021, respinge il ricorso di un lavoratore che richiede la nullità e/o l'illegittimità dell'art. 23 della sezione servizi fiduciari del CCNL per i dipendenti da istituti ed imprese di vigilanza privata, in quanto i minimi tabellari ivi previsti non garantirebbero una retribuzione sufficiente a vivere.

Il magistrato, in sostanza, argomenta la sua decisione ricordando che “la retribuzione prevista dai contratti collettivi gode di una presunzione di adeguatezza rispetto ai principi di proporzionalità e di sufficienza che trova il proprio fondamento nella considerazione del particolare ruolo che le parti sociali rivestono nel nostro ordinamento…”. In considerazione delle disposizioni sulla libertà sindacale contenute nell'art. 39 Cost., in altre parole, lo strumento del contratto collettivo costituisce un vero e proprio parametro di legalità che il legislatore ha scelto di utilizzare per valutare la congruità e la proporzionalità della retribuzione.

I motivi della decisione dei giudici di secondo grado

La Corte d'Appello ribalta completamente il giudizio di primo grado, sulla base di una serie di ragionamenti storici, giuridici e pratici.

Intanto i magistrati ricordano l'evoluzione giurisprudenziale, confermando il ragionamento del giudice di primo grado in ordine al fatto che, fino ad oggi, la giurisprudenza aveva fatto ricorso alla contrattazione collettiva nazionale come parametro di riferimento per dare contenuti all'art. 36 Cost., superando in questo modo il vuoto legislativo dato dall'inattuazione della seconda parte dell'art. 39 Cost.

Ma detto questo, la Corte di Appello vira completamente: il sistema è andato in crisi, a detta dei magistrati, con la rottura dell'unità sindacale e con il fenomeno del dumping sociale e dei cosiddetti “accordi pirata”, nonché con la proliferazione dei contratti collettivi nella stessa categoria che amplia ulteriormente la possibilità di scelta da parte dei datori di lavoro su quale contratto collettivo applicare ai propri dipendenti. Specie nei settori ad alta intensità di manodopera (istituti di vigilanza, logistica, portinai di stabili, ecc.), insiste la Corte, gli stessi contratti collettivi stipulati da organizzazioni sicuramente rappresentative prevedono minimi salariali troppo bassi.

Con un rovesciamento completo di prospettiva, quindi, per i motivi storici di una crisi generale del “sistema di relazioni industriali e della ridotta capacità dei rapporti sociali e di lavoro di resistere alle pressioni dei mercati”, sempre più i magistrati intervengono direttamente sul tema, rischiando di mandare in pezzi alcuni contratti collettivi nazionali di riferimento (cfr, ad ulteriore esempio, Trib. Torino 9 agosto 2019 n. 1128 e Trib. Milano 10 marzo 2022 n. 673).

I giudici supportano il ragionamento generale analizzando la questione anche da ulteriori punti di vista, giuridici e pratici:

  • altri CCNL sottoscritti da sindacati parimenti rappresentativi e che contemplano mansioni sovrapponibili a quelli in esame, garantiscono – ai lavoratori a tempo pieno, di pari anzianità e preposti allo svolgimento di mansioni analoghe – una retribuzione significativamente superiore;
  • rispetto al contratto multiservizi, considerato dal giudice quello più idoneo alla comparazione, la retribuzione riconosciuta all'appellante è inferiore di circa 1/3;
  • il richiamo agli altri contratti non ha lo scopo di affermare l'esistenza di un principio di parità di trattamento – che in materia non esiste – ma serve solo a verificare l'adeguatezza della retribuzione;
  • l'analisi è fatta su un contratto a tempo pieno, il che impedisce al lavoratore di poter integrare il proprio reddito svolgendo altre attività lavorative;
  • l'analisi non può essere fatta sulla retribuzione lorda, ed applicando l'aliquota contributiva del 9,19% e quella fiscale del 23%, la retribuzione netta di € 650,29 che viene fuori dal conteggio dei minimi del CCNL vigilanza privata è notevolmente inferiore all'importo che l'Istat individua come soglia di povertà assoluta;
  • le stesse conclusioni si raggiungono anche se il calcolo viene fatto sulla retribuzione oraria (questo ragionamento può essere utile anche per individuare eventualmente il salario minimo per legge, su cui è in corso un acceso dibattito politico) o se il parametro di confronto invece che sui dati Istat viene fatto sul reddito previsto dal nostro ordinamento per il riconoscimento della pensione d'inabilità civile;
  • l'insufficienza retributiva viene fuori in modo netto anche se comparata al reddito di cittadinanza che, come noto, prevede un importo massimo mensile che può raggiungere i 780 euro.

Fonte: Corte Appello di Milano n. 580/2022

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