Il senso della previsione dell'art. 6 c. 9-bis.3 D.Lgs. 471/97 è quello, essenzialmente, di mitigare la portata sanzionatoria nei casi in cui, mediante inversione contabile, viene erroneamente applicata l'imposta ad operazione esenti, non imponibili o, comunque, non soggette all'imposta.
In questo caso, si prevede infatti una sostanziale irrilevanza della vicenda ai fini sanzionatori (del resto, a rigore, non vi è stata evasione Iva, essendo stata applicata l'imposta ad un caso dove non doveva essere) e si prevede solo una regola di tipo procedurale, in ragione della quale l'Ufficio deve eliminare sia l'imposta a debito sia quella a credito mentre il cessionario o committente può recuperare l'imposta eventualmente non detratta, con una variazione ai sensi dell'art. 26 c. 3 DPR 633/72.
Ebbene, la questione interpretativa su cui la Suprema Corte è stata chiamata a pronunciarsi è, propriamente, l'ultimo inciso del comma citato che ha ad oggetto segnatamente le operazioni inesistenti.
Come infatti chiarito anche dalla Circ. AE 11 maggio 2017 n. 16/E, detta previsione contente infatti di applicare il peculiare regime procedimentale testé riportato anche alle operazioni inesistenti, prevedendo solamente in aggiunta la sanzione amministrativa compresa tra il cinque e il dieci per cento dell'imponibile, con un minimo di 1.000 euro.
Un trattamento sanzionatorio, che pur non impattando sul penale di cui al D.Lgs. 74/2000, appare particolarmente contenuto.
Ebbene, il dubbio che la previsione pone è se, nel riferirsi ad operazioni inesistenti, essa richiami implicitamente l'inciso che precede, che si riferisce espressamente alle operazioni esenti, non imponibili o comunque non soggette ad imposta, oppure si rivolga a tutte quante le operazioni inesistenti, e quindi anche a quelle imponibili.
Contrasti giurisprudenziali
Sul punto, in effetti, si è registrato un contrasto in giurisprudenza.
Lettura rigorosa del comma 9-bis.3
Da una parte, vi è Cass. 9 agosto 2016 n. 16679, seguita da Cass. 8 ottobre 2020 n. 21677 e da Cass. 27 novembre 2020 n. 27112, con una posizione assai rigorosa di lettura riduttiva della previsione, tale per cui l'inciso finale del c. 9-bis.3 torna applicabile solamente alle ipotesi previste dall'inciso precedente, ossia alle operazioni inesistenti che siano anche esenti, non imponibili o comunque non soggette ad imposta.
Resterebbero pertanto escluse le operazioni inesistenti ma imponibili; ciò, per l'assorbente ragione che per queste ultime il diritto alla detrazione dell'imposta è, in ogni caso, precluso ai sensi dell'art. 19 DPR 633/72.
Lettura permissiva del c. 9-bis.3
Dall'altra parte, però, vi è un diverso orientamento della Suprema Corte, più corposo, espresso dalle sentenze del 12 dicembre 2019, nn. 32552, 32553 e 32554, del 30 luglio 2020 n. 16367 e del 7 dicembre 2021 n. 38757, assai più permissivo.
Secondo questo diverso orientamento, infatti, ferma l'indetraibilità dell'IVA, trattandosi di operazioni inesistenti, torna comunque applicabile il più mite regime sanzionatorio.
Ciò, quindi, senza distinzione di trattamento, sull'assunto che l'espressione ‘operazioni inesistenti', impiegata dal c. 9-bis.3 debba essere riferita a tutte le ipotesi e non solo a quelle comprese nella prima parte dello stesso comma.
Intervento delle Sezioni Unite
Su queste premesse, si inserisce l'intervento della Suprema Corte a Sezioni Unite volto a comporre il contrasto.
Ebbene, la soluzione accolta dalla Corte è quella indubbiamente più rigorosa.
Ad avviso della Corte, difatti, la seconda parte dell'art. 6 c. 9-bis.3 può riferirsi solo alle operazioni inesistenti esenti, non imponibili o comunque non soggette a imposta, mentre resterebbero escluse quelle imponibili inesistenti.
Non solo per il tema della detrazione dell'imposta a monte, che resta in ogni caso escluso, ma anche sul piano sanzionatorio. Per la Corte, infatti, in caso di violazione delle regole sull'inversione contabile, in tema di operazioni inesistenti, torna applicabile la sanzione di cui all'art. 6 c. 1 D.Lgs. 471/97, dal 90 al 180 per cento, per effetto delle modifiche introdotte dall'art. 15 D.Lgs. 158/2015.
Unica eccezione ammessa dalla Corte si ha per il caso di operazioni soggettivamente inesistenti, laddove sussistano i requisiti per il riconoscimento del diritto alla detrazione, per carenza di prova dell'elemento psicologico circa la conoscibilità della frode. Anche in questo caso, invero, torna applicabile il regime di cui all'art. 6 c. 9-bis.3 con il portato sanzionatorio più mite, in linea con il test di proporzionalità imposto dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia e riconosciuto dalla Suprema Corte nella propria giurisprudenza (Cass. S.U. 27 aprile 2022 n. 13145).
La ragione che ha motivato la Corte sembrerebbe di ordine squisitamente sistematico.
Nelle parole della Corte, infatti, la presa di posizione viene motivata sull'assunto dell'esigenza di evitare un «vulnus al sistema di protezione che l'ordinamento ha inteso riconoscere con l'apprestamento di misure proporzionate e dissuasive rispetto alle frodi in tema di IVA, che trovano nelle operazioni inesistenti un non marginale fattore di innesco, costituendo la lotta contro la frode, l'evasione fiscale ed eventuali abusi un obiettivo riconosciuto e incoraggiato dalla VI direttiva IVA (Corte giust. 31 gennaio 2013, Stroy trans, C-642/11, punto 46)».
In realtà, le ragioni sistematiche non appaiono particolarmente fondate, in quanto, se così fosse, tutte le operazioni inesistenti andrebbero escluse e non solo quelle su operazioni imponibili. Con il meccanismo del reverse charge, non essendoci pagamento di imposta, per definizione non vi è propriamente una evasione di IVA, ovvero il rischio di una detrazione di un IVA non versata. Operativamente, insomma, non vi è differenza con le operazioni esenti o non imponibili. Se sul piano sistematico la soluzione della Corte potrebbe apparire non particolarmente soddisfacente, il discorso cambia sul piano strettamente tecnico. Nel caso delle operazioni inesistenti imponibili, l'inesistenza comporta, in linea di principio, l'indetraibilità dell'imposta a monte (C. Giust. 27 giungo 2018 C-459/17 SGI e Valériane, ). Di conseguenza, posto che l'imposta a debito va comunque versata in quanto fatturata (art. 21 c. 7 DPR 633/72), ecco allora che torna applicabile l'art. 6 c. 1, laddove sanziona chi «indica, nella documentazione o nei registri, una imposta inferiore a quella dovuta». Questo, salvo il caso dell'inesistenza soggettiva in cui, laddove non sia fornita la prova della consapevolezza, l'imposta resta detraibile; qui, in verità, la Suprema Corte ha ritenuto invocabile il co. 9-bis.3, sennonché, in difetto di evasione, la sanzione ivi prevista (cinque e il dieci per cento dell'imponibile, con un minimo di 1.000 euro) appare, a rigore, una sanzione sproporzionata ed eccessiva.
Fonte: Cass. S.U. 20 luglio 2022 n. 22727