lunedì 04/07/2022 • 15:09
La Cassazione, tramite la sentenza 28 giugno 2022 n. 20780, ha chiarito che l'elencazione delle condotte sanzionabili, inserita nel contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro, non è vincolante per il giudice, che può disattenderla valutando la condotta nel suo complesso.
In tema di licenziamento disciplinare, come da consolidato orientamento giurisprudenziale tra cui Cass. 11 aprile 2022 n. 11665 e Cass. 26 aprile 2022 n. 13065, al fine di valutare se applicare la reintegrazione o l'indennità risarcitoria, il giudice può procedere alla sussunzione della condotta addebitata al lavoratore nella previsione contrattuale che punisca l'illecito con una sanzione conservativa, anche se nel CCNL stesso non vi sia un richiamo chiaro ma solo un rinvio di clausole generali o elastiche. Questa operazione di “sussunzione” è pienamente legittima e rimane nell'alveo del giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto ai fatti contestati ed è coerente con la volontà delle parti sociali stipulanti il contratto collettivo. Il caso: Cass. 28 giugno 2022 n. 20780 La sentenza presa in esame riguarda il caso di un ex dipendente dell'Agenzia delle Entrate di Riscossione, inquadrato apicale nella categoria Quadri direttivi, licenziato per giusta causa con un espresso richiamo a una sentenza del Tribunale di Roma che lo aveva condannato a 2 anni di reclusione, con interdizione dai pubblici uffici per il medesimo periodo. La Corte territoriale, adita per il secondo grado, aveva poi accolto solo parzialmente la domanda del lavoratore volta alla reintegrazione, ritenendo che – ai sensi dell'art. 35 CCNL – la condotta contestata non fosse rientrante tra quelle sanzionabili con un provvedimento conservativo e, per l'effetto, al posto della reintegrazione in servizio (art. 18, c. 4, L. 300/70) ha riconosciuto al lavoratore un'indennità risarcitoria pari a 12 mensilità, ai sensi dell'art. 18, c. 5, L. 300/70. Il lavoratore ha quindi agito innanzi alla Corte di Cassazione, chiedendo l'applicazione della reintegrazione, nonostante la sua condotta non rientrasse tra quelle indicate nel contratto collettivo in corrispondenza delle sanzioni conservative. In estrema sintesi, quindi, il lavoratore ha sostenuto che, in mancanza di qualificazione da parte della contrattazione collettiva, l'insussistenza del fatto (oggetto di contestazione) ricomprende sia il fatto materiale in sé che la non riconducibilità dello stesso a ragione giustificatrice di una sanzione espulsiva, anziché conservativa, rinnovando le proprie domande. La valutazione della condotta del lavoratore, al di fuori del contratto collettivo È un dato consolidato che una specifica condotta del lavoratore, per essere considerata grave inadempimento al punto da giustificare il licenziamento, non deve necessariamente essere foriera di un danno effettivo, in quanto ciò che conta è anche solo la potenziale possibilità di determinarlo. Tale situazione, infatti, comporta quella lesione del vincolo fiduciario che, in particolar modo nei dipendenti con funzioni direttive, giustifica il recesso. L'accertamento del fatto/addebito da parte del giudice di merito, dunque, attiene alla condotta nella sua materialità e, allo stesso modo, alla sua anti-giuridicità rispetto alle norme nazionali e a quelle aziendali: questa doppia operazione consente di valutare la gravità della condotta e attribuire alla stessa poi uno peso specifico rispetto al rapporto tra le parti, e all'incidenza della condotta sugli equilibri aziendali (come problemi, per esempio, di compatibilità ambientale). Ecco perché si conosce una diversa graduazione del licenziamento disciplinare che viene classificato per giusta causa (quando senza preavviso) oppure giustificato motivo soggettivo (quando con preavviso). Questa gradazione viene fatta calandosi nella peculiarità del caso concreto, poiché il giudice del lavoro deve effettuare un'analisi considerando: il tipo di azienda e la realtà settoriale della stessa; l'accaduto nel suo complesso, valutando anche chi è stato compartecipe; l'eventuale corresponsabilità del datore di lavoro; l'effettivo danno alla produttività, anche se potenziale, derivante dalla condotta; la presenza di precedenti disciplinari. Quanto incide l'elencazione delle sanzioni del contratto collettivo Il principio generale consolidato in giurisprudenza è che il datore di lavoro non può irrogare un licenziamento disciplinare quando questo costituisca una sanzione più grave di quella prevista dal contratto collettivo, in relazione ad una determinata infrazione: se la condotta X è sanzionabile con un provvedimento conservativo, il licenziamento è automaticamente illegittimo, questo perché le condotte che, seppur astrattamente, potrebbero integrare una giusta causa non possono rientrare in tale novero se l'autonomia collettiva le ha espressamente escluse (sul punto Cass. 7 maggio 2015 n. 9223, Cass. 17 giugno 2011 n. 13353, Cass. 15 febbraio 1996 n. 1173). È anche vero che l'elencazione dei contratti collettivi va sempre intesa come indicativa, e non esaustiva. Il datore di lavoro può legittimamente irrogare un licenziamento disciplinare anche per condotte mai descritte nelle declaratorie contrattuali, poiché effettua una valutazione circa la compromissione del vincolo fiduciario anche tenendo conto di fattori esterni (si pensi, ad esempio, ad una sentenza penale passata in giudicato che è comunque destinata a fare stato tra le parti e comunque a rappresentare l'effettivo compimento di un atto e della sua illiceità). Nel caso di specie, analizzato nella sentenza in commento, la situazione è esattamente la stessa. Il lavoratore ha reclamato l'applicazione della tutela prevista dall' art. 18, c. 4, L. 300/70 al posto dell'indennità risarcitoria (più contenuta) riconosciuta dall'art. 18, c. 5, L. 300/70. Il principio di fondo è che, se nel contratto collettivo sono presenti formule generali, norme elastiche, norme di chiusura, la mancata tipizzazione di alcune condotte non è di per sé significativa della volontà delle parti sociali di escluderle dal novero di quelle meritevoli di una sanzione conservativa anziché espulsiva. Si compie, quindi, un ragionamento al contrario: il lavoratore ha diritto ad una tutela più forte (art. 18, c. 4, L. 300/70) al posto di quella semplicemente indennitaria (art. 18, c. 5, L. 300/70) anche se la propria condotta non viene elencata tra quelle sanzionabili solo in via conservativa. Fonte: Cass. 28 giugno 2022 n. 20780
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