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mercoledì 15/10/2025 • 06:00

Fisco ACCERTAMENTI IN ARRIVO PER LE IMPRESE

Aiuti Covid e riporto delle perdite: le contestazioni delle Entrate sono infondate

L'Agenzia delle Entrate contesta il riporto integrale delle perdite fiscali alle imprese che hanno ricevuto contributi Covid, equiparando erroneamente tali aiuti a proventi esenti. Tale posizione è giuridicamente infondata e rischia di penalizzare proprio le imprese più colpite dalla crisi pandemica, sollevando dubbi di legittimità costituzionale e sistematica.

di Marco Nessi - Dottore Commercialista e Revisore Legale

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  • Tempo di lettura 3 min.
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Nel complesso contesto fiscale post-pandemico, un nuovo fronte di contenzioso si sta ormai profilando all'orizzonte per molte imprese italiane. Si tratta della contestazione da parte dell'Agenzia delle Entrate del diritto al riporto integrale delle perdite fiscali per gli esercizi in cui sono stati percepiti contributi Covid a fondo perduto. La tesi dell'Amministrazione finanziaria, fondata su un'interpretazione discutibile dell'art. 84 c. 1 terzo periodo TUIR, vorrebbe che tali contributi fossero qualificati come proventi esenti, con conseguente esclusione dal riporto delle perdite per una quota pari all'ammontare degli aiuti ricevuti.

Questa posizione, oltre a essere giuridicamente infondata, appare in palese contrasto con la ratio delle misure emergenziali e pone seri dubbi sotto il profilo costituzionale e sistematico, rischiando di produrre un effetto paradossale: colpire proprio le imprese più danneggiate dalla crisi pandemica, alle quali gli aiuti erano espressamente destinati.

La contestazione dell'Agenzia delle Entrate: il cuore del problema

La contestazione muove da una rilettura delle norme emergenziali (in particolare l'art. 10-bis DL 137/2020) che aveva previsto l'esclusione degli aiuti Covid dalla base imponibile ai fini IRES e IRAP, nonché dalla rilevanza ai fini dei parametri di deducibilità degli interessi passivi (artt. 61 e 109 c. 5 TUIR). L'Amministrazione interpreta questa previsione di “non concorrenza al reddito” come equivalente a “esenzione”, con conseguente applicazione del terzo periodo dell'art. 84 TUIR, che prevede che le perdite non possano essere riportate nella misura corrispondente ai proventi esenti.

Secondo questa logica, un'impresa che, ad esempio, nel 2020 dovesse avere registrato una perdita fiscale di 500 euro e percepito un contributo Covid di 100 euro, avrebbe diritto a riportare solo 400 euro, perché la quota eccedente (pari all'“esenzione”) non sarebbe deducibile in futuro. Se negli esercizi successivi la società ha utilizzato la perdita per abbattere il reddito, la quota di 100 euro verrebbe considerata indebitamente utilizzata, con conseguente recupero dell'imposta, applicazione di interessi e sanzioni.

L'errore di fondo: “esente” non è “escluso”

L'assunto da cui parte la contestazione è concettualmente e tecnicamente errato: gli aiuti Covid non sono “proventi esenti”, ma “componenti esclusi” dalla base imponibile. Il TUIR, infatti, distingue in modo netto tra:

  • componenti esenti: che sono redditi che per espressa previsione normativa non concorrono alla formazione del reddito, ma che conservano una natura reddituale;
  • componenti esclusi: ovvero voci che, per scelta del legislatore, sono espunte dalla base imponibile, senza essere inquadrate come redditi fiscalmente rilevanti.

La lettera dell'art. 10-bis DL 137/2020 è chiara: gli aiuti Covid “non concorrono alla formazione del reddito imponibile”. Non si fa mai riferimento alla qualifica di “esenzione”, né vi è rinvio alla disciplina dell'art. 84 terzo periodo TUIR. Si tratta quindi di una esclusione oggettiva dalla base imponibile, non di una esenzione soggettiva da un reddito esistente.

Del resto, lo stesso legislatore ha escluso questi componenti anche dal calcolo del rapporto di deducibilità degli interessi passivi, riconoscendo implicitamente la loro estraneità alla logica del reddito d'impresa. Questo rafforza la tesi secondo cui tali contributi non generano un reddito “fiscalmente esistente” soggetto a disciplina limitativa del riporto.

Incoerenze e paradossi applicativi

L'applicazione dell'art. 84 terzo periodo TUIR ai contributi emergenziali produce risultati illogici e incoerenti. Il sistema, così come reinterpretato dall'Agenzia, genera una discriminazione evidente tra:

  • le imprese in utile durante il periodo Covid (che hanno percepito i contributi e beneficiato pienamente della loro detassazione);
  • le imprese in perdita (che, in teoria, avrebbero avuto maggiore bisogno del sostegno pubblico e che si vedono ora ridotto il diritto al riporto delle perdite, subendo un effetto penalizzante nei periodi successivi).

Questo meccanismo genera un “doppio binario” ingiustificato, che mina la coerenza dell'impianto normativo. È evidente, infatti, che la funzione dell'aiuto era quella di sostenere la continuità aziendale, non certo di generare future contestazioni sul piano fiscale.

Una lettura sistematica del TUIR porta a ritenere che, laddove la norma sull'indeducibilità degli interessi passivi (artt. 61 e 109 TUIR) non tiene conto dei contributi, allo stesso modo non possa farlo il meccanismo del riporto delle perdite. Ciò sarebbe contrario al principio di coerenza interna del sistema tributario, fondato su criteri di simmetria tra componenti positivi e negativi.

Un altro elemento decisivo contro la tesi dell'Agenzia è rappresentato dalla ratio legis delle norme emergenziali. I contributi a fondo perduto e le altre misure agevolative furono introdotti per:

  • compensare le perdite operative subite a causa delle restrizioni sanitarie;
  • mantenere in vita il tessuto imprenditoriale nazionale durante una crisi senza precedenti;
  • evitare il collasso di interi settori dell'economia.

Attribuire oggi a queste norme una funzione antitetica, ossia limitare la possibilità di utilizzare quelle stesse perdite che si volevano tamponare, significa stravolgerne completamente la finalità originaria, con effetti distorsivi non solo giuridici ma anche etici. Ulteriormente, una simile ricostruzione si pone in contrasto con l'art. 3 Cost., sotto il profilo della ragionevolezza e della parità di trattamento tra contribuenti (il principio di capacità contributiva, alla base del nostro ordinamento tributario, risulta gravemente compromesso se si finisce per tassare postumi gli aiuti ricevuti per affrontare una situazione eccezionale).

Il rischio di un contenzioso sistemico

Oltre all'infondatezza nel merito, la posizione dell'Amministrazione finanziaria rischia di aprire un contenzioso sistemico su un'ampia gamma di altri strumenti agevolativi che, al pari degli aiuti Covid, prevedono la “non concorrenza” al reddito ovvero:

  • crediti d'imposta per investimenti in beni strumentali (Transizione 4.0 e 5.0);
  • incentivi per ricerca e sviluppo;
  • esenzioni parziali su dividendi e plusvalenze;
  • contributi ambientali e agevolazioni per l'innovazione.

Se passasse l'interpretazione secondo cui ogni componente esclusa dalla base imponibile deve ridurre la perdita riportabile, si determinerebbe un effetto domino devastante su migliaia di imprese, con un incremento generalizzato del carico fiscale, effetti retroattivi e imprevedibili, e un livello di incertezza normativa insostenibile.

Inoltre, questa impostazione aprirebbe la porta a differenziali interpretativi pericolosi, in cui l'elemento qualificatorio (esente vs escluso) diventa discriminante per la fiscalità futura, senza che vi sia una base normativa chiara o una volontà esplicita del legislatore.

Osservazioni

Alla luce delle osservazioni sin qui sviluppate, appare evidente che l'interpretazione fornita dagli uffici fiscali sia non solo infondata sotto il profilo tecnico-giuridico, ma anche incompatibile con i principi generali del diritto tributario e della Costituzione. In assenza di un intervento chiarificatore del legislatore o della prassi amministrativa (si auspica una circolare dell'AE o una norma interpretativa di salvaguardia), il rischio è quello di alimentare un'ondata di contenziosi che intaserebbe le Corti di giustizia tributaria nei prossimi anni. Va inoltre ricordato che la disciplina civilistica era stata già modificata nel 2020 per salvaguardare il capitale sociale delle imprese in perdita (art. 6 DL 23/2020), confermando l'intento del legislatore di proteggere le aziende dal crollo economico. Non si vede come, sul piano fiscale, si possa oggi negare il medesimo principio. Il buon senso, il rispetto della legalità e la tutela del tessuto economico produttivo dovrebbero suggerire all'Amministrazione finanziaria di ritirare o almeno sospendere tali contestazioni.

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