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venerdì 19/09/2025 • 06:00

Lavoro DALLA CASSAZIONE

Benefit alloggio: quando ha natura retributiva

Il benefit alloggio ha natura retributiva allorquando si tratta di un emolumento erogato in modo continuativo, fisso e periodico, senza la necessità di presentare giustificativi di spesa: a dichiararlo è la Corte di Cassazione con Ordinanza n. 24849 del 9 settembre 2025.

di Elena Cannone - Avvocato

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  • Tempo di lettura 9 min.
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Nel caso oggetto dell'ordinanza della Corte di Cassazione n. 24849 del 9 settembre 2025, un dirigente distaccato all'estero per 17 anni (in Portogallo, in Cina e in Turchia), si rivolgeva al Tribunale perché condannasse la società, sua ex datrice di lavoro, al pagamento:

  • di determinate differenze retributive a titolo di incidenza sul TFR del c.d. trattamento economico estero e dei benefits (alloggio, auto, tasse e scuola) nonché della retribuzione variabile goduti durante il distacco;
  • del risarcimento del danno derivante dalla mancata fissazione degli obiettivi e dalla, conseguente, mancata erogazione della retribuzione variabile nell'anno 2013; dell'indennità sostitutiva del preavviso e della relativa incidenza sul TFR; dell'indennità supplementare ai sensi dell'art. 25 del CCNL applicato al rapporto di lavoro.

Il Tribunale, svolta CTU contabile, accoglieva la domanda limitatamente all'incidenza sulla base di calcolo del TFR dell'indennità estera fino al 31 dicembre 2011, del contributo alloggio e del benefit auto goduti durante la permanenza in Turchia, secondo quanto determinato dal CTU sulla base dei dati contabili concordati tra le parti.

La Corte d'appello, in parziale accoglimento del gravame, condannava la società appellante al pagamento dell'indennità supplementare, dell'incidenza del trattamento estero sul TFR, dell'incidenza del benefit alloggio sul TFR, dell'incidenza del benefit tasse sul TFR, dell'incidenza del benefit auto sul TFR nonché dell'incidenza della retribuzione variabile pagata negli anni 2012-2016 sul TFR, oltre rivalutazioni ed interessi dalla cessazione del rapporto al saldo.

Proponeva ricorso in cassazione la società a cui resisteva il dirigente con controricorso.

La decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione, investita della causa, parte dall'art. 25 del CCNL di riferimento che così recita: “1. Nel caso di risoluzione del rapporto di lavoro a iniziativa dell'azienda — con esclusione dei licenziamenti riconducibili alla giusta causa ex art 2119 c.c. o di quelli disposti nel corso del periodo di prova - la stessa, ferma restando la preventiva sottoscrizione dello specifico verbale di conciliazione di cui al successivo comma 8, riconoscerà al dirigente un'indennità supplementare al preavviso correlata all'età del dirigente (...). 8. Gli importi di cui al presente articolo saranno riconosciuti previa sottoscrizione di un apposito verbale di conciliazione in sede sindacale ai sensi dell'art. 411, comma 3, c.p.c. che attesti la rinuncia all'impugnazione della risoluzione del rapporto di lavoro a fronte del riconoscimento delle suddette spettanze”.

Orbene, i giudici di merito hanno evidenziato che, a differenza dal CCNL per i Dirigenti del Terziario, dell'Industria e del Credito, il CCNL in questione consente il licenziamento ad nutum, riconoscendo al datore di lavoro la facoltà di recedere liberamente dal rapporto di lavoro dirigenziale, senza alcun obbligo di motivazione e senza necessità di giustificatezza del recesso. In tale contesto, il dirigente può ottenere l'indennità supplementare solo se rinuncia all'impugnazione del licenziamento, mediante la sottoscrizione di un verbale di conciliazione in sede sindacale.

Tuttavia - hanno osservato i giudici - la sottoscrizione del verbale di conciliazione richiede la cooperazione di entrambe le parti, che deve essere improntata ai principi di correttezza e buona fede ex artt. 1175 e 1375, quali espressione del più ampio dovere di solidarietà di cui all'art. 2 Cost.

Esclusa, perché arbitraria, la possibilità per l'azienda di subordinare l'erogazione dell'indennità supplementare alla rinuncia da parte del dirigente non solo all'impugnazione del licenziamento ma anche a qualsiasi ulteriore pretese nei suoi confronti, i giudici hanno qualificato la procedura prevista dalla disposizione come negozio giuridico sottoposto a condizione sospensivaex art. 1353 c.c.

In pendenza della condizione sospensiva, l'azienda è tenuta a comportarsi secondo buona fede, al fine di non pregiudicare le ragioni dell'altra parte (art. 1358 c.c.). In particolare, grava sul datore di lavoro l'obbligo di indicare il luogo e la data dell'incontro per la sottoscrizione del verbale in sede sindacale, nel rispetto dei termini di legge.

Alla luce di ciò, è stato riconosciuto al dirigente il diritto a percepire l'indennità supplementare, nonostante la mancata sottoscrizione del verbale di conciliazione, ritenuta irrilevante. Infatti, sulla base della ricostruzione dei fatti effettuata, si è ritenuto trovasse applicazione la fattispecie della finzione di avveramento della condizione ai sensi dell'art. 1359 c.c. Essa rappresenta un rimedio risarcitorio in forma specifica, applicabile quando la condizione non si verifica per condotta imputabile alla parte che ha interesse contrario al suo avveramento. Affinché operi, è necessario che detta parte abbia assunto comportamenti volti a impedirne o agevolarne la mancata verificazione.

Per la sua operatività, il comportamento della parte che ha ostacolato l'avveramento della condizione deve possedere determinati requisiti sia oggettivi che soggettivi: da un lato, deve esistere un nesso causale tra la condotta ed il mancato avveramento della condizione, e, dall'altro, è necessario almeno una colpa in capo alla parte che ha interesse contrario all'avveramento della condizione.

Nel caso di specie, la Corte distrettuale ha ritenuto dimostrato il comportamento contrario a buona fede della società nel non riscontrare i solleciti del dirigente licenziato e nel non indicare tempo e luogo per la sottoscrizione della conciliazione ai fini dell'applicazione della finzione di avveramento della condizione sospensiva.

Computo TFR e benefit alloggio

Passando poi all'interpretazione dell'art. 25 del CCNL di riferimento in materia di base di calcolo per il computo del TFR (con riguardo sia al trattamento estero e ai benefits nei periodi all'estero che alla retribuzione variabile percepita), i giudici di merito hanno richiamato la giurisprudenza di legittimità secondo la quale l'art. 2120 c.c. è ispirato al principio della onnicomprensività della retribuzione da prendere a base del TFR. Principio che può essere derogato solo dai contratti collettivi stipulati successivamente alla entrata in vigore della normativa e a condizione che gli stessi prevedano in modo esplicito la deroga. L'individuazione degli emolumenti da considerare utili e la determinazione del loro valore sono due operazioni concettualmente, e anche temporalmente, distinte e non sovrapponibili. Prima si individuano gli emolumenti di natura retributiva da inserire nella base di calcolo del TFR e poi si determina il loro valore economico, riferendosi le modalità descritte dall'art. 25, comma 3, a quest'ultima operazione.

I giudici di merito hanno affermato, con motivazione congrua e logica, che la clausola di cui al comma 3 di tale articolo non introduce una deroga espressa all'art. 2120, in mancanza dei caratteri di chiarezza, univocità e specificità richiesti dalla giurisprudenza consolidata in materia.

In merito al benefit alloggio nei periodi di assegnazione del dirigente in Cina e in Portogallo, la Corte distrettuale ha riconosciuto la sua natura retributiva, trattandosi di un emolumento erogato in modo continuativo, fisso e periodico, senza la necessità di presentare giustificativi di spesa. La corresponsione di tale somma è stata considerata strettamente connessa alla prestazione lavorativa svolta all'estero, con la funzione di garantire il mantenimento del livello retributivo del dipendente.

La finalità del beneficio era, infatti, quella di soddisfare le esigenze abitative, personali e familiari del dirigente e non quella di coprire spese legate a esigenze di servizio o di rappresentanza del datore di lavoro.

In considerazione di tutto quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione conclude per il rigetto del ricorso presentato dalla società, condannandola anche alle spese di lite.

Fonte: Cass. Ord. n. 24894 del 9 settembre 2025

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