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giovedì 08/05/2025 • 06:00

Lavoro DALLA CASSAZIONE

Fallimento e TFR: il lavoratore può accedere allo stato passivo del datore

La Cassazione, con ordinanza 16 aprile 2025 n. 10082, ha affermato che, nelle aziende con più di 50 dipendenti, le quote TFR maturate dal lavoratore e non versate al Fondo di Tesoreria dell'INPS mantengono la natura di crediti retributivi del lavoratore, e sono per questo esigibili dopo la cessazione del rapporto.

di Elena Cannone - Avvocato

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  • Tempo di lettura 1 min.
  • Ascolta la news 5:03

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La Corte di Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi su un caso relativo al mancato pagamento del TFR da parte del datore di lavoro (cedente ex art. 2112 c.c.) sottoposto a procedura concorsuale fallimentare.

L'istituto del TFR e la previdenza complementare

Innanzitutto, la Corte di Cassazione ricorda che l'art. 2120 c.c. riconosce al dipendente il diritto al TFR “in ogni caso di cessazione del rapporto di lavoro subordinato” e, quindi, indipendentemente dalle motivazioni che lo hanno determinato.

Il TFR ha natura retributiva il cui pagamento viene differito alla cessazione del rapporto e matura nel corso del rapporto, mediante accantonamenti annui di una quota della retribuzione soggetta a periodica rivalutazione. In caso di decesso del lavoratore, il TFR maturato viene corrisposto sotto forma di indennità sostitutiva ai superstiti (art. 2122 c.c.).

Ai sensi del D.Lgs. 252/2005 il lavoratore ha la facoltà di destinare il proprio TFR al sistema di previdenza complementare. In caso di omesso versamento delle relative quote da parte del datore di lavoro, la titolarità del TFR rimane (normalmente) in capo al lavoratore “anche ai fini della sua legittimazione attiva e della sua insinuazione al passivo fallimentare” (cfr. Cass. n. 18477/2023 e Cass. n. 16266/2023). Solo ove risulti una cessione del credito al Fondo di previdenza, la legittimazione spetta a quest'ultimo (art. 93 Legge fallimentare).

Il diritto al TFR si prescrive nel termine di cinque anni decorrenti dalla data di cessazione del rapporto di lavoro (art. 2948, comma 5, c.c.), salvo il caso in cui il credito venga riconosciuto da un provvedimento giurisdizionale passato in giudicato, nel qual caso il termine prescrizionale è di dieci anni (art. 2953 c.c.). Il termine prescrizionale resta interrotto a seguito dell'insinuazione del credito del lavoratore nello stato passivo, ricominciando a decorrere, per l'intera sua durata (cinque anni), dalla data di chiusura della procedura concorsuale.

Funzione di garanzia

La Corte di Cassazione richiama l'attenzione sulle regole volte a garantire l'effettività del pagamento del TFR, evidenziando come tale credito, proprio perché erogato alla cessazione del rapporto, sia esposto al rischio di inadempimento (come di insolvenza) del datore di lavoro. Tale rischio è più frequente e per cifre più elevate rispetto a quelle mensilmente dovute a titolo di retribuzione, alla cui mancata corresponsione il lavoratore può reagire più tempestivamente, anche solo per contenere il danno.

Al riguardo, la Corte di Cassazione ricorda norme come l'art. 29 D.Lgs. 276/2003, che hanno lo scopo di coinvolgere, in via solidale, altri soggetti nel pagamento del TFR, di regola maggiormente solvibili come il committente (o il sub-committente) nell'ambito del contratto di appalto.

In questo contesto si insinuano anche le regole dettate dalla L. 297/1982 sopra citata, che ha istituito il Fondo di Garanzia per il TFR il quale interviene in caso di inadempienza del datore di lavoro, sostituendosi a quest'ultimo nel pagamento del TFR ai lavoratori.

L'accesso al Fondo è subordinato al ricorrere di tre condizioni:

  1. insolvenza del datore e accertamento del credito in sede concorsuale;
  2. titolo giudiziale e tentativo esecutivo infruttuoso, se il datore non è soggetto a fallimento;
  3. cessazione del rapporto di lavoro.

Solo dopo la formazione dello stato passivo dichiarato esecutivo il lavoratore può presentare domanda all'Inps per l'intervento del Fondo nel termine prescrizionale di 10 anni. Il Fondo garantisce il pagamento integrale del TFR nella misura accertata nell'ambito della procedura (concorsuale o individuale) aperta a carico del datore di lavoro. A seguito dell'erogazione della prestazione, il Fondo è surrogato di diritto al lavoratore (o ai suoi aventi causa) nei privilegi previsti dagli artt. 2751 bis c.c. e 2776 c.c. e si può rivalere nei confronti del datore di lavoro per le somme pagate.

Inoltre, la Corte di Cassazione richiama le norme dettate dalla L. 296/2006 che ha istituito un ulteriore sistema di garanzia del TFR per i lavoratori di imprese con oltre 50 dipendenti. A decorrere dal 1° gennaio 2007, i datori di lavoro rientranti in tale ambito sono tenuti a versare mensilmente le quote di TFR al Fondo di Tesoreria, istituito presso la Tesoreria dello Stato e gestito dall'INPS. Il pagamento del TFR avviene sempre all'atto della cessazione del rapporto, da parte del datore, che può poi conguagliare le somme anticipate con i contributi dovuti all'ente previdenziale.

Il TFR mantiene natura retributiva e non si trasforma in credito previdenziale. Pertanto, il mancato versamento delle relative quote così come l'eventuale recupero del conguaglio da parte del datore senza averle corrisposte effettivamente al lavoratore, costituiscono inadempimento del datore di lavoro.

La decisione e i principi di diritto

Orbene, ad avviso della Corte di Cassazione, le quote di TFR, tanto che siano trattenute presso l'azienda quanto che siano versate al Fondo di Tesoreria INPS ex art. 1 c. 755-757 L. 296/2006 o destinate a un fondo di previdenza complementare, rappresentano un credito certo e liquido del lavoratore, esigibile alla cessazione del rapporto di lavoro.

Se non versate, il datore di lavoro e il committente rimangono obbligati al pagamento, e il lavoratore può insinuarsi nel passivo fallimentare. Inoltre, il versamento dei contributi al Fondo di Tesoreria estingue la pretesa del lavoratore solo se effettivamente effettuato, con l'onere della prova a carico del datore di lavoro. Anche per la previdenza complementare, in caso di omesso versamento, il lavoratore conserva il diritto al TFR e la possibilità di far valere il suo credito, inclusa l'insinuazione al passivo fallimentare.

Alla luce di quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione nell'ordinanza n. 10082 del 16 aprile 2025 ha affermato i seguenti principi di diritto:

  1. ”In tema di TFR per il periodo successivo all'1.1.2007, ex art. 1, comma 755 – 757 legge n. 296/2006, le quote maturate dal lavoratore e non versate dal datore di lavoro al Fondo di Tesoreria gestito dall'INPS, per le aziende con almeno 50 dipendenti, mantengono la natura di crediti retributivi del lavoratore che corrispondono ad un diritto certo e liquido la cui esigibilità è subordinata alla cessazione del rapporto; ne consegue che il datore di lavoro non è un mero adiectus solutionis causa, né perde la titolarità passiva dell'obbligazione di pagare il t.f.r. con trasferimento di essa ad esclusivo carico dell'INPS, e che, pertanto, il lavoratore è legittimato a domandare l'ammissione al passivo fallimentare del datore di lavoro fallito”
  2. “In ipotesi di omesso versamento delle quote di TFR al Fondo di Tesoreria, il mero richiamo effettuato dall'art. 1, comma 755 – 757 legge n. 296/2006 delle norme in tema di “contributi” non produce alcuna automatica immutazione della natura sostanziale del TFR, intesa come retribuzione differita ex art. 2120 c.c. ma vale ai fini procedurali e della più agevole riscossione del credito maturato mese per mese dal lavoratore e del rafforzamento delle garanzie che ne conseguono in sede previdenziale per il lavoratore”.

Fonte: Ord. Cass. 10082 del 16 aprile 2025

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