mercoledì 31/07/2024 • 06:00
La CGUE con pronuncia 29 luglio 2024 interviene sulla normativa del Reddito di Cittadinanza, dichiarandola discriminatoria nella parte in cui richiede come requisito di accesso la residenza continuativa per almeno 10 anni. Non è, inoltre, conforme alla normativa UE la previsione nazionale che punisce con sanzione penale qualsiasi falsa dichiarazione sul requisito di residenza.
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Non è conforme alla normativa comunitaria (art. 11 par. 1 lett. d) Dir. 2003/109; art. 34 Carta UE), la previsione di uno stato membro che subordina l'accesso dei cittadini di Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo a una misura riguardante:
al requisito, applicabile anche ai cittadini di tale Stato membro, di aver risieduto in detto Stato membro per almeno dieci anni, di cui gli ultimi due in modo continuativo.
Non è, inoltre, conforme alla normativa comunitaria la previsione nazionale che punisce con sanzione penale qualsiasi falsa dichiarazione relativa a tale requisito di residenza.
Tanto si legge nella sentenza della CGUE del 29 luglio 2024.
I fatti di causa
Il procedimento prende le mosse dalle accuse rivolte dal Pubblico Ministero della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Napoli a due cittadini extracomunitari di aver commesso il reato di cui all'art. 7, c. 1, DL 4/2019, in quanto esse avrebbero sottoscritto domande volte all'ottenimento del «reddito di cittadinanza», attestandovi falsamente di soddisfare i requisiti per la concessione di tale prestazione, ivi compreso il requisito della residenza in Italia da almeno dieci anni previsto da detto decreto-legge.
Le domande, presentate nell'ambito di procedimenti penali promossi in due distinte cause (C-112/22, e C-223/22), con decisione del presidente della Corte del 3 maggio 2022, venivano riunite ai fini delle fasi scritta e orale del procedimento, nonché della sentenza.
Il Tribunale di Napoli, giudice del rinvio, nutriva dubbi sulla conformità del decreto-legge n. 4/2019 al diritto dell'Unione, nella misura in cui, al fine di ottenere il «reddito di cittadinanza», che costituisce una prestazione di assistenza sociale volta a garantire un livello minimo di sussistenza, tale decreto-legge impone, in particolare, ai cittadini di paesi terzi di avere risieduto in Italia per almeno dieci anni, di cui gli ultimi due in modo continuativo. Detto giudice ritiene che, in tal modo, il decreto-legge in parola istituisca un trattamento sfavorevole nei confronti di tali cittadini, ivi compresi di coloro i quali sono titolari di permessi di soggiorno di lungo periodo, rispetto al trattamento riservato ai cittadini nazionali.
Il diritto italiano e comunitario
L'articolo 1 DL 4/2019 – Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni, al comma 1 così dispone:
«È istituito, a decorrere dal mese di aprile 2019, il Reddito di cittadinanza (...) quale misura fondamentale di politica attiva del lavoro a garanzia del diritto al lavoro, di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all'esclusione sociale, nonché diretta a favorire il diritto all'informazione, all'istruzione, alla formazione e alla cultura attraverso politiche volte al sostegno economico e all'inserimento sociale dei soggetti a rischio di emarginazione nella società e nel mondo del lavoro. Il [reddito di cittadinanza] costituisce livello essenziale delle prestazioni nei limiti delle risorse disponibili».
L'articolo 2 del decreto, nell'enucleare i beneficiari del reddito di cittadinanza, ne individua i requisiti di accesso:
· la cittadinanza, la residenza e il soggiorno del richiedente, da un lato
· e, dall'altro, il reddito, il patrimonio e il godimento di beni durevoli del nucleo familiare del medesimo.
Per quanto riguarda i primi requisiti, l'articolo 2, al comma 1, richiede che i nuclei familiari siano in possesso cumulativamente, al momento della presentazione della domanda e per tutta la durata dell'erogazione del beneficio, dei seguenti requisiti:
a) con riferimento ai requisiti di cittadinanza, residenza e soggiorno, il componente richiedente il beneficio deve essere cumulativamente:
1) in possesso della cittadinanza italiana o di Paesi facenti parte dell'Unione (...), ovvero essere un suo familiare, (...), che sia titolare del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente, ovvero essere un cittadino di Paesi terzi in possesso del permesso di soggiorno dell'Unione per soggiornanti di lungo periodo;
2) residente in Italia per almeno 10 anni, di cui gli ultimi due, considerati al momento della presentazione della domanda e per tutta la durata dell'erogazione del beneficio, in modo continuativo;
(...)».
Con riferimento alle sanzioni, l'articolo 7 prevede:
«Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di ottenere indebitamente il beneficio di cui all'articolo 3, rende o utilizza dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero omette informazioni dovute, è punito con la reclusione da due a sei anni».
La Direttiva 2003/109 nei considerando da 2 a 12 si precisa che occorre ravvicinare lo status giuridico dei cittadini di paesi terzi a quello dei cittadini degli Stati membri e che, alle persone che soggiornano regolarmente in un determinato Stato membro per un periodo da definirsi e sono in possesso di un permesso di soggiorno di lunga durata, lo Stato membro dovrebbe garantire una serie di diritti uniformi e quanto più simili a quelli di cui beneficiano i cittadini dell'Unione europea.
La condizione principale per ottenere lo status di soggiornante di lungo periodo dovrebbe essere la durata del soggiorno nel territorio di uno Stato membro. Dovrebbe trattarsi di un soggiorno legale ed ininterrotto, a testimonianza del radicamento del richiedente nel paese in questione. È necessaria una certa flessibilità affinché si possa tener conto delle circostanze che possono indurre una persona ad allontanarsi temporaneamente dal territorio.
L'articolo 4 di detta direttiva, rubricato «Durata del soggiorno», al paragrafo 1 così dispone:
«Gli Stati membri conferiscono lo status di soggiornante di lungo periodo ai cittadini di paesi terzi che hanno soggiornato legalmente e ininterrottamente per cinque anni nel loro territorio immediatamente prima della presentazione della pertinente domanda».
Conclusioni della Corte
Nel giungere alle conclusioni, la Corte prende le mosse dalla qualificazione del «reddito di cittadinanza» quale prestazione di assistenza sociale volta a garantire un livello minimo di sussistenza, rientrante in uno dei tre settori indicati all'articolo 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109, ossia le prestazioni sociali, l'assistenza sociale e la protezione sociale, ai sensi della legislazione nazionale.
Segue precisando che il requisito di residenza di 10 anni, di cui gli ultimi due in modo continuativo, comporta una disparità di trattamento costitutiva di una discriminazione indiretta nei confronti dei cittadini di paesi terzi soggiornanti di lungo periodo rispetto ai cittadini dello Stato membro interessato.
Tale requisito incide principalmente sui cittadini stranieri, tra i quali figurano, in particolare, i cittadini di paesi terzi, oltre che gli italiano che non possiedano il requisito della residenza.
Una disparità di trattamento tra i cittadini di paesi terzi soggiornanti di lungo periodo e i cittadini dello Stato membro interessato non può essere giustificata dal fatto che essi si troverebbero in una situazione diversa a causa dei loro rispettivi legami con tale Stato membro. Una siffatta giustificazione sarebbe contraria all'articolo 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109, che impone una parità di trattamento tra loro nei settori delle prestazioni sociali, dell'assistenza sociale e della protezione sociale.
La direttiva 2003/109 prevede, al suo articolo 4, paragrafo 1, un requisito di soggiorno legale e ininterrotto di cinque anni nel territorio di uno Stato membro affinché il cittadino di un paese terzo possa ottenere lo status di soggiornante di lungo periodo da parte di tale Stato membro e detto non può prorogare unilateralmente il periodo di soggiorno richiesto affinché tale soggiornante di lungo periodo possa godere del diritto garantito dall'articolo 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109, senza violare la normativa comunitaria.
Da ultimo, per quanto attiene alla questione della compatibilità con il diritto dell'Unione e, in particolare, con la direttiva 2003/109, di una disposizione nazionale che prevede l'irrogazione di una sanzione penale ai richiedenti una misura riguardante le prestazioni sociali, l'assistenza sociale o la protezione sociale in caso di falsa dichiarazione, da parte di questi ultimi, circa i requisiti di accesso a tale misura, dalla giurisprudenza della Corte risulta che un sistema sanzionatorio nazionale non è compatibile con le disposizioni della direttiva 2003/109 quando è imposto per assicurare il rispetto di un obbligo che, a sua volta, non è conforme a tali disposizioni.
Fonte: CGUE 29 luglio 2024 nn. C 112 e 223
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