E chi se lo sarebbe mai aspettato?
Sin dall'alba dei tempi, che io ricordi (banalmente, dal 2000), il contratto di lavoro part time è caratterizzato dalla predeterminazione dell'orario di lavoro tra le parti.
La necessità di statuire un orario di lavoro rigido e non modificabile unilateralmente (a meno che non si ricorra all'utilizzo delle c.d. clausole elastiche, dapprima introdotte con il d.lgs n°276/2003 e successivamente modificate dal D.Lgs. 81/2015) fa parte integrale delle regole del gioco dei part time, istituto da sempre contestato per la sua rigidità sostanziale.
Poi, nella prassi, soprattutto nei servizi, non si può non negare una certa “elasticità pragmatica” nell'utilizzo di quello che comunemente viene considerato un basket di ore settimanale (se va bene) minimo, la cui collocazione è rimessa ad “accordi verbali” e/o pubblicazione di turni con un “certo” preavviso.
La realtà giuridica è ben diversa. Lo sa bene la Corte di Cassazione che con l'adunanza dello scorso 29 aprile è andata a confermare il mantra della rigidità.
La mancata collocazione delle fasce orarie e le conseguenze.
Partiamo dalle basi.
La disciplina del part-time introdotta dal D.Lgs. 81/2015, che di fatto abroga la normativa prevista dal d. Lgs. n°61/2000, consente lo svolgimento dell'attività lavorativa con un orario inferiore rispetto a quello fissato per il normale full time. Oramai noto anche ai sassi, nel momento in cui viene stipulato, il contratto deve contenere varie indicazioni tra cui la durata della prestazione lavorativa, la collocazione temporale dell'orario di lavoro con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all'anno, infine l'eventuale presenza di clausole elastiche.
La sentenza della Cassazione in trattazione verte essenzialmente su di una identificazione oraria piuttosto “generosa”, rimessa a “contenitori” di orari annuali (n°1.008,00 ore), n°18 turni mensili per n°7 mesi all'anno.
Ciò che deve rilevarsi, al di là del casus belli, riguarda l'interpretazione che la suprema corte consegna della previsione (peraltro nemmeno applicabile al caso di specie) dell'art. 5, c. 3, D.Lgs. 81/2015 il quale dispone che nel caso in cui lo svolgimento dell'attività lavorativa sia articolata in turni, le indicazioni di cui al comma 2 (ovvero la puntuale indicazione) “possono avvenire anche mediante rinvio a turni programmati di lavoro articolati su fasce orarie prestabilite”.
Nel merito, la Corte ha sottolineato che “Non è possibile sostenere […] che la possibilità di prevedere lo svolgimento dell'orario part time in turni (anche mediante rinvio a turni programmati di lavoro articolati su fasce orarie prestabilite) comporti anche la deroga all'esigenza della puntuale indicazione dei turni nel contratto di lavoro (che la stessa legge vuole programmati per fasce prestabilite)” in quanto, sostiene, che tale interpretazione risulterebbe essere “illogica ed in contrasto anche con la ratio protettiva del part time”.
Al di là delle conseguenze giuridiche rispetto alle censure poste dalla Cassazione (ovvero l'applicazione dell'articolo 10 co 2 D.Lgs. 81/2015) il fulcro fondamentale è che il rinvio a turni articolati e programmati su fasce orarie prestabilite impone, all'atto della sottoscrizione del contratto di assunzione, la necessità che il lavoratore/trice possa prevedere quando dovrà espletare l'attività lavorativa, non consentendo una interpretazione che possa concedere una sorta di unilaterale collocazione oraria a cura dell'azienda.
D'altronde, la vera essenza del contratto a tempo parziale non risulta proprio essere la necessità di conciliare vita privata e lavoro?
Difatti, la sentenza sottolinea proprio questo, dicendo molto chiaramente che nel caso in cui tale aspetto della disciplina non venisse rispettato, esso “si porrebbe perciò contro la ratio protettiva del part time […] la quale richiede invece una immediata indicazione dell'articolazione oraria dell'attività al fine di consentire al lavoratore una migliore organizzazione del tempo di lavoro e del tempo libero; posto che la normativa si pone l'obiettivo di contemperare le esigenze del datore di lavoro di utilizzazione della prestazione in forma ridotta e del lavoratore di poter consapevolmente organizzare il suo tempo, in modo da poter gestire le sue attività di lavoro ulteriori e di vita quotidiana”.
Le clausole elastiche. Come scriverle
Volendo tradurre in poche parole, il part timer deve sapere quando prestare attività lavorativa, non potendo creare o interpretare le previsioni del D.Lgs. 81/2015 in senso difforme dalla certezza del tempo lavoro rispetto al tempo personale.
Questa pacifica previsione si deve riverberare anche nelle clausole elastiche.
Si tratta di clausole eventuali, non necessarie, inseribili all'interno del contratto di lavoro parziale, a merito delle quali (art 6 D.Lgs. 81/2015) nel rispetto di quanto previsto dai contratti collettivi, le parti del contratto di lavoro pattuiscono, per iscritto, clausole “relative alla variazione della collocazione temporale della prestazione lavorativa ovvero relative alla variazione in aumento della sua durata”. Il tutto con un preavviso di almeno due giorni lavorativi, fatta salva l'autonomia collettiva.
Si badi bene. Una corretta formulazione della clausola elastica impone, volendo ottemperare a quella “puntuale indicazione” prevista dalla norma, che i turni e/o fasce nelle quali il lavoratore/trice possa essere chiamato/a ad espletare attività siano noti già in sede di sottoscrizione.
Il tutto, se volete, rafforzato anche dai principi di cui al D.Lgs. 104/2022 (c.d. decreto trasparenza) laddove appare pacifico che se il part timer deve sapere quando lavora e quando non lavora, tale determinazione sarà altresì necessaria nella clausola elastica (giacché evidentemente, vi saranno dei “momenti” in cui non sarà possibile contare, nemmeno con preavviso, sul collaboratore).
Traducendo. Va bene tutto ma il lavoratore deve poter conoscere i turni che di fatto è chiamato a svolgere, o che potrebbe svolgere previo preavviso.
Conclusioni
In ogni caso, povero part time.
Così' bistrattato, anacronistico, di fatto inflessibile. Come piccolo istituto giuridico, bontà sua, lui non ha nemmeno colpe. Lo hanno previsto molto rigido e chiaro, pure ammettendo che quelle minime forme di flessibilità chiamate clausole elastiche, siano prevedibili, di fatto creando un ossimoro giuridico (c'è chi direbbe “contemperazione”) tra esigenze di flessibilità aziendale e necessità di staticità personale.
Peraltro, il part time, è proprio sventurato. Pensate a questo:
Sapete che vi sono diversi contratti collettivi che impongono un numero di ore definito minimo in caso di part time? Citiamo solo il recentemente rinnovato CCNL delle cooperative sociali quale esempio. Ovviamente sono previsioni che, volendo essere generosi, dire che sono corbellerie è molto, giacchè ritualmente inapplicabili (peraltro la legge non ha mai acconsentito al CCNL di poter disporre in tal senso);
Quante volte sono inserite, in ciclostile, clausole elastiche mal redatte nei contratti part time? Magari l'azienda nemmeno si rende conto della previsione inserita e, pertanto, non eroga nemmeno la maggiorazione rimessa al contratto collettivo, con la conseguenza che al termine di una onorevole carriera il lavoratore sia “spinto” a richiedere delle giuste differenze retributive (alias maggiorazioni) che non ha percepito nonostante la buona disponibilità a mutare il profilo orario;
Che sia il caso di rivedere i nostri format?