venerdì 31/05/2024 • 06:00
La Legge sul Made in Italy non si pronuncia in tema di tutela, salvo per il settore della contraffazione, se non con un'integrazione all’art. 517 c.p., che estende il reato anche a colui che detiene la merce per scopo di vendita. In mancanza dei Decreti attuativi, possiamo ipotizzare che ricadrà nella tutela vigente anche l’indebito uso del contrassegno per il Made in Italy.
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Il “Made in Italy” possiede una doppia tutela, da fonte internazionale e fonte nazionale. A livello internazionale sin dal 1891 sussiste l'Accordo di Madrid ratificato dall'Italia nel 1965 e tuttora vigente. Esso prevede il divieto di false e ingannevoli indicazioni dell'origine sui prodotti in importazione con il sequestro in caso di violazione riscontrata da parte delle autorità doganali. Dalle disposizioni internazionali nasce un collegamento al codice penale nazionale al suo articolo 517 in tema di vendita di prodotti industriali con segni mendaci. Pertanto, l'Accordo, ampiamente applicato prima della promulgazione della normativa nazionale specifica, determinava in caso di sua violazione l'integrazione del reato ai sensi dell'art. 517 c.p. con il sequestro dei beni. Nel 2003 la disciplina ha ricevuto in Italia un'ulteriore specifica con la legge n. 350, articolo 4, che oggi, a seguito anche di successivi interventi del legislatore, si esprime in merito ai commi 49, 49bis, 49ter e 49 quater. Sono state introdotte previsioni volte a tutelare specificatamente l'origine italiana dei prodotti, tramite sia le sanzioni amministrative sia il reato rapportato sempre all'art.517 c.p. La Legge sul Made in Italy Questo apparato normativo costituisce il corpo sanzionatorio anche in riferimento al “Made in Italy” richiamato dalla legge n. 206/23 di cui i beni vorranno fregiarsi. La nuova norma, infatti, non si pronuncia in tema di tutela, salvo per il diverso settore della contraffazione, se non con una integrazione apportata all'art. 517 c.p., volta ad estendere il reato anche a colui che detiene la merce per scopo di vendita. In mancanza tuttora dei decreti attuativi, previsti entro aprile, possiamo comunque ipotizzare che ricadrà nella tutela attualmente vigente anche l'indebito uso del contrassegno per il “Made in Italy” sorto con l'articolo 39 della legge n. 206/23. La disposizione dichiara il divieto dell'utilizzo del contrassegno fuori dai casi indicati nell'articolo, e dunque in quei casi in cui il bene non sia di origine non preferenziale italiana, in virtù del rimando alla normativa europea, e non rispetti quelle ulteriori indicazioni che il decreto attuativo dovrà fornire in tema, ad esempio, di settori merceologici e tipologie di prodotti contrassegnabili, previa autorizzazione e regole di utilizzo. La reclusione sino a due anni e la multa sino a € 20.000 La tutela del “Made in Italy” si fonda sulla configurazione del reato di vendita di prodotti industriali con segni mendaci per coloro che importano o esportano a fini di commercializzazione ovvero commercializzano o compiono atti diretti in modo non equivoco a commercializzare beni che indichino il “Made in Italy” falsamente e cioè non in rispetto della normativa doganale in tema di origine non preferenziale. Ma anche le indicazioni costituite da termini, segni o figure più generici idonei a indurre il consumatore a ritenere che il prodotto sia di origine italiana quando non lo integrano il reato; si tratta delle indicazioni fallaci. Il reato è connesso all'origine come produzione e come origine non preferenziale dettata dalla normativa doganale europea. È un ormai consolidato approdo anche della giurisprudenza, la quale, se agli inizi dell'applicazione della legge n. 350/2003 aveva aperto a concezioni più ampie del termine “origine” con riferimento all'ideazione, al progetto, alla responsabilità imprenditoriale, ha ora ormai acquisito con fermezza la rispondenza dell'origine italiana esclusivamente alla produzione in Italia del bene in base ai dettami della norma doganale europea. La recente cronaca economica ci ha ricordato queste disposizioni. L'Agenzia delle Dogane e dei Monopoli ha comunicato il 15 maggio un sequestro di minicar importate dal Marocco e lì fabbricate che presentavano un tricolore apposto sulla portiera o sulla fiancata, ritenuto dall'amministrazione doganale costituire una indicazione fallace dell'origine italiana integrante reato art 517 c.p. in violazione della legge n. 350/03. Tra le citate fallaci indicazioni il comma 49 presenta altresì l'utilizzo fallace o fuorviante di un marchio ai sensi della disciplina sulle pratiche commerciali ingannevoli. La condotta punita penalmente è quella ingannevole, volta a trarre in inganno il consumatore sull'origine italiana del bene. In merito alla merce, in caso di contestata violazione di natura penale, essa è oggetto di sequestro. Qualora l'azienda ritenga non fondata la contestazione, potrà impugnare il provvedimento al Tribunale del Riesame per chiederne l'annullamento. Altrimenti, potrà riottenere la merce dietro regolarizzazione della stessa asportando, quando possibile, le diciture illegittime ovvero menzionando la corretta origine. Tal regolarizzazione è possibile solo nel caso in cui si tratti di merce non ancora messa in libera pratica e dunque non ancora svincolata a seguito importazione doganale. La sanzione sino nel minimo a € 129.115 e nel massimo a € 774.685 Dal reato 517 c.p. che sorge con la violazione al “Made in Italy” deriva una ricaduta in termini di responsabilità dell'ente ai sensi del d.lgs. n.231/01: il reato di cui all'articolo 517 c.p. è, difatti, uno dei reati presupposto, ex art. 25-bis.1, che determina in capo all'azienda la sanzione pecuniaria fino a cinquecento quote, dove una quota corrisponde a un minimo di € 258,23 ad un massimo di €1.549,37. Tale rilevanza comporta una dovuta attenzione da parte dell'impresa anche nelle procedure di controllo interne previste con il Modello 231, le quali dovranno essere idonee altresì a prevenire i reati connessi alla citata legge n. 350/03 in tema di origine italiana dei prodotti regolata dalla normativa doganale UE. La sanzione amministrativa da € 10.000,00 a € 250.000,00 Accanto alla rilevanza penale, l'uso del marchio può condurre ad un illecito amministrativo. Ciò accade quando al marchio, capace di evocare l'origine italiana, non sia aggiunta una dicitura che palesi in maniera chiara ed evidente la effettiva diversa origine estera del bene ovvero non sia presentata in dogana nella fase di importazione una attestazione di impegno da parte dell'azienda di apposizione di tale dicitura nella successiva fase di commercializzazione. La natura amministrativa della violazione sorge, dunque, quando le indicazioni in termini di origine non vi siano o vi siano ma non sufficientemente palesi e precise e a fronte di una condotta non necessariamente ingannevole. Questo è il caso del più recente intervento di Cassazione, con sentenza n. 20226/2022, dove la Corte ha ritenuto legittima la multa di € 170.000,00 in capo a un'azienda che aveva importato calzature fabbricate in Cina con l'apposizione del proprio marchio italiano e con la dicitura “Made in China” ma non adeguatamente visibile, in quanto all'interno della tomaia. Anche in caso di natura amministrativa della violazione messa in atto dall'azienda contro la normativa di tutela del “Made in Italy”, la merce subisce un fermo. Anche in tal caso, essa potrà tornare nella disponibilità dell'azienda a seguito di regolarizzazione, quando possibile, delle indicazioni sulla merce; in caso contrario la merce è oggetto di confisca. In conclusione Il “Made in Italy” trova, in specie nella normativa nazionale già presente da decenni nel nostro ordinamento, una salda tutela. Conseguenze penali o amministrative, in base alla tipologia delle violazioni, si prefiggono di tutelare il consumatore finale, affinché non subisca nella sua scelta di acquisto l'appeal commerciale dell'origine italiana quando il prodotto sia invece il risultato di una produzione delocalizzata in altri Paesi europei o extraeuropei totalmente o comunque superiore a quanto concesso dalla normativa doganale dell'Unione europea. ...
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