mercoledì 29/05/2024 • 06:00
È legittimo il licenziamento per giusta causa del lavoratore che, immediatamente dopo la reintegra disposta in primo grado, denigri la società, sua datrice di lavoro, pubblicando foto e video diffamatori sulla propria pagina Facebook. A dichiararlo è la Cassazione con ordinanza 17 maggio 2024 n. 13764.
Nel caso in esame la Corte d'appello territorialmente, con sentenza del 30 dicembre 2020, aveva rigettato il reclamo presentato da un lavoratore avverso la sentenza di primo grado che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento intimatogli il 21 novembre 2014 dalla società, sua datrice di lavoro. Licenziamento adottato da quest'ultima perché il lavoratore l'aveva denigrata, immediatamente dopo la reintegra nel proprio posto di lavoro disposta dallo stesso Tribunale in esito all'impugnazione del primo licenziamento comminato il 23 dicembre 2013 con effetto dal successivo 16 marzo. La Corte d'appello aveva ravvisato la ricostituzione de iure del rapporto di lavoro, per effetto della pronuncia di illegittimità del primo licenziamento in applicazione della tutela reale, senza che fosse necessario un ulteriore atto di riassunzione da parte del datore di lavoro. Entrando nel merito, la Corte d'appello aveva ritenuto sussistente la giusta causa di licenziamento, per evidente lesione del vincolo fiduciario che deve sottendere un normale rapporto di lavoro, avendo il lavoratore, subito dopo la reintegra, pubblicato su Facebook dal 6 al 7 novembre 2014 video e soprattutto foto (a prescindere dalla sua personale ideazione dei “post fotografici”, comunque fatti propri per il mantenimento della bacheca) eccedenti i limiti di un corretto esercizio del diritto di critica, poiché di palese intento diffamatorio. Il lavoratore soccombente decideva di ricorrere in cassazione avverso la pronuncia della Corte di appello, affidandosi ad unico motivo a cui resisteva la società con controricorso e memoria. Nello specifico, il lavoratore eccepiva l'erronea valutazione da parte dei giudici di merito in ordine alla carenza del potere disciplinare della datrice di lavoro in difetto di ricostituzione effettiva del rapporto di lavoro nonché del profilo psicologico e del grado di intenzionalità della sua condotta, oltre che per difetto di proporzionalità tra essa e la sanzione massima comminata. La decisione della Corte di Cassazione La Corte di Cassazione, investita della causa, ha osservato che il rapporto di lavoro si considerade iure ripristinato, per effetto dell'ordine di reintegrazione nel posto di lavoro disposto dal Giudice di prime cure, con conseguente riattivazione delle obbligazioni rimaste quiescenti a seguito del licenziamento illegittimo del lavoratore. A sostegno della sua tesi, la Corte di Cassazione richiama una pronuncia secondo la quale (cfr. Cass. 14 maggio 2008, n. 12100): fin dal momento della lettura del dispositivo in udienza (nella fase che precede il deposito della motivazione), esecutivo per legge, il lavoratore può scegliere tra la ripresa del lavoro o il pagamento dell'indennità sostitutiva della reintegra e nell'ipotesi di reintegrazione ai sensi dell'art. 18, comma 4, della Legge 300/70 (c.d. Statuto dei Lavoratori) nella formulazione precedente alle modifiche introdotte dalla Legge n. 91/2012 (c.d. “Legge Fornero”), il diritto alla reintegra ed al risarcimento del danno non è subordinato, diversamente da quanto avviene nel caso di conversione a tempo indeterminato di un rapporto di lavoro a tempo determinato per nullità del termine, alla messa in mora del datore di lavoro mediante l'offerta della prestazione lavorativa da parte del lavoratore. Quanto sopra poiché il lavoratore medesimo, a fronte del rifiuto del datore di lavoro di riceverne la prestazione, manifestato proprio con l'intimazione del recesso, mette a sua disposizione le proprie energie lavorative già con l'impugnativa stragiudiziale del provvedimento espulsivo (cfr. Cass. 6 giugno 2019, n. 15379). Secondo la Corte di Cassazione, i giudici di merito hanno “esattamente” applicato detti principi al caso di specie, compiendo una valutazione in fatto, adeguatamente argomentata in ordine ai profili di intenzionalità della condotta del lavoratore e di proporzionalità della sanzione espulsiva adottata nei suoi confronti. Conclude, pertanto, la Corte di Cassazione per la legittimità del licenziamento intimato al lavoratore per aver denigrato sul proprio profilo Facebook la società, subito dopo la sentenza di primo grado di reintegrazione, pubblicando foto e video diffamatori nei suoi confronti. In considerazione di tutto quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso e condannato il lavoratore alla rifusione delle spese di giudizio in favore della società. Fonte: Cass. 17 maggio 2024 n. 13764
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Chiara Ciccia Romito
- PhD - Avvocato - Consulente Commissione Parlamentare Inchiesta Condizioni di LavoroRimani aggiornato sulle ultime notizie di fisco, lavoro, contabilità, impresa, finanziamenti, professioni e innovazione
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