lunedì 13/05/2024 • 06:00
I Giudici possono ritenere proporzionato o meno il salario minimo previsto dai CCNL di categoria? Se i minimi contrattuali risultano insufficienti, il Giudice può motivatamente discostarsi dalla retribuzione stabilita dal CCNL, comparandola con il trattamento retributivo previsto da altri CCNL di settori affini.
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La sentenza in commento trae origine dal caso di un lavoratore che conveniva in giudizio il suo datore di lavoro, per ottenere il diritto all'adeguamento delle retribuzioni percepite nel corso del rapporto di lavoro. Egli sosteneva, infatti, che la sua retribuzione non fosse conforme ai parametri stabiliti dall’art. 36 della Costituzione.
Il Tribunale, accogliendo il ricorso, accertava il diritto del lavoratore a percepire un trattamento retributivo di base non inferiore a quello previsto per il livello D1 del CCNL dei dipendenti di proprietari di fabbricati, e non quello del CCNL per i dipendenti delle imprese di Vigilanza privata - servizi fiduciari, pertinente al settore di operatività del datore di lavoro ed applicato al rapporto oggetto di giudizio.
Quest’ultimo proponeva appello e la Corte territoriale lo accoglieva, riformando la sentenza di primo grado e sostenendo che il datore aveva pacificamente applicato il CCNL pertinente al settore di operatività il quale, oltretutto, vedeva tra i suoi firmatari le organizzazioni sindacali dei lavoratori maggiormente rappresentative a livello nazionale.
Nello specifico, ed a supporto della propria decisione, il Collegio affermava il principio secondo cui tutti i rapporti di lavoro che sono regolati dai contratti collettivi propri del settore di operatività, e sono siglati da organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale, debbano essere esclusi dalla valutazione di conformità ex art. 36 Costituzione.
Ciò in quanto la retribuzione prevista dal CCNL sarebbe dotata di una presunzione assoluta di adeguatezza ai principi di proporzionalità e sufficienza e, solo per tale motivo, non sarebbe coerente col vigente sistema contrattuale previsto dall’art. 39, co. 4, Cost. rimettere al giudice il potere di sindacare i livelli retributivi, per individuare quello più remunerativo.
Avverso tale decisione il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione, che veniva accolto.
La Corte Suprema, nella sentenza in commento, riteneva meritevoli di accoglimento i motivi del ricorso del lavoratore, affermando il principio secondo cui il giudice di merito, a domanda, non possa sottrarsi a valutare la conformità delle retribuzioni corrisposte ai lavoratori ai criteri cogenti previsti dall’art. 36 Cost.
La sentenza ha composto un contrasto di giurisprudenza che si era formato proprio con riguardo a tale facoltà del magistrato. Vediamolo nel dettaglio.
Il contrasto giurisprudenziale.
Un primo orientamento sul tema della congruità retributiva rispetto ai canoni costituzionali, e sulla conseguente eventuale applicazione di un contratto collettivo alternativo, è quello a cui si è uniformato il Tribunale di Catania, nella sentenza del 21 luglio 2023.
Il Giudice siciliano, infatti, in un caso del tutto analogo a quello in commento, affermava che, nonostante la retribuzione oraria corrisposta ad un lavoratore fosse conforme ai parametri minimi dettati dal CCNL applicato al rapporto di lavoro, detto emolumento risultasse comunque “inadeguato”, e notevolmente inferiore rispetto a quello previsto da altri contratti collettivi stipulati dai sindacati rappresentativi nel settore, o di settori analoghi per le medesime mansioni.
All’atto pratico, secondo il Tribunale etneo, il Giudice, per definire la retribuzione adeguata da corrispondere al lavoratore, può individuare un altro CCNL come parametro di riferimento, purché riguardi le stesse mansioni svolte e lo stesso livello di inquadramento.
Una posizione diametralmente opposta, invece, veniva assunta qualche mese dopo dal TAR Lombardia con la sentenza 4 settembre 2023, n. 2046.
Il Collegio, in accoglimento del ricorso presentato da un datore di lavoro, annullava un provvedimento di disposizione affermando che l’Ispettorato del Lavoro non poteva imporre al datore di lavoro di applicare, al posto del CCNL dallo stesso prescelto, un altro contratto collettivo migliorativo sotto il profilo retributivo.
Ciò in quanto, in assenza di una norma che impone al datore di lavoro un salario minimo, la scelta del CCNL da applicare ai propri dipendenti è del tutto discrezionale e, salvo il caso di contratti collettivi contenenti previsioni contrarie alla legge (o riferibili a categorie del tutto diverse rispetto a quelle in cui opera l’impresa), tale determinazione non è sindacabile nel merito.
Più precisamente, il TAR motivava la decisione applicando l’art. 7, comma 4, del D.L. n. 248/2007 (convertito in legge n. 31/2008), il quale stabilisce che il trattamento complessivo minimo da garantire al dipendente è quello previsto dal CCNL comparativamente più rappresentativo del settore, che funge da parametro esterno di commisurazione della proporzionalità e della sufficienza del trattamento economico da corrispondere al socio-lavoratore ai sensi dell’art. 36 Cost. (cfr. Corte cost., sent. n. 51/2015).
Da qui discende, sempre secondo il Collegio milanese, la legittimità della scelta datoriale di applicare il CCNL al rapporto di lavoro, sempre che sia appropriato e idoneo a garantire il trattamento economico proporzionato e sufficiente ai sensi dell’art. 36 Cost.
Il contrasto appena analizzato è stato composto dalla sentenza della Corte di Cassazione del n. 27711 del 2 ottobre 2023.
Il componimento del contrasto.
Per comporre il contrasto giurisprudenziale, la Suprema Corte parte col chiarire i principi che ispirano l’art. 36, co. 1 Cost., il quale garantisce ai lavoratori il diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro reso, nonché ad una retribuzione non inferiore al livello minimo ritenuto necessario ad assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa.
Sulla scorta di tale principio, i Giudici di legittimità ritengono che il magistrato del merito, a specifica domanda del lavoratore, non possa sottrarsi a valutare la conformità delle retribuzioni corrisposte ai lavoratori ai criteri cogenti previsti dall’art. 36 Cost.
Per tale motivo, il fatto che la retribuzione effettivamente corrisposta al lavoratore sia conforme a quella stabilita dal CCNL siglato dai sindacati maggiormente rappresentativi, non appare per nulla ostativo alla denuncia per violazione dell’art. 36 Cost. E ciò in quanto non può escludersi con assoluta certezza che anche tale retribuzione sia al di sotto del salario minimo costituzionale.
Com’è noto, del resto, il giudice di merito, in forza dell’art. 2099 c.c., gode di un’ampia discrezionalità nella determinazione della giusta retribuzione, potendo discostarsi (in diminuzione ma anche in aumento) dai minimi retributivi della contrattazione collettiva, e potendo utilizzare altri criteri di giudizio e parametri differenti da quelli collettivi, con l’unico obbligo di darne puntuale e adeguata motivazione rispettosa dell'art. 36 Cost.
La Suprema Corte, poi, aggiunge che l’attuazione del precetto del giusto salario costituzionale è una valutazione che il giudice deve effettuare considerando anche le indicazioni sovranazionali e quelle provenienti dall’Unione Europea e dall’ordinamento internazionale.
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