venerdì 03/05/2024 • 06:00
La Corte d’Appello di Milano, con sentenza 4 aprile 2024 n. 259, ha dichiarato illegittimo il licenziamento per inidoneità fisica intimato a carico di un lavoratore che non aveva superato la visita medica periodica di idoneità. Una perizia medica ha messo in dubbio le valutazioni espresse dal medico competente.
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Un lavoratore, sottoposto a visita periodica da parte del medico competente, veniva giudicato sostanzialmente inidoneo alla mansione di magazziniere, per la quale era stato assunto appena un anno prima. Il medico competente, infatti, aveva vietato l'adibizione del dipendente a lavori gravosi o che comportassero la movimentazione carichi, guida di carrelli elevatori o di veicoli conducibili con patente C o superiore; in sostanza – pur emettendo un giudizio di idoneità con prescrizioni – aveva decretato l'impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni di magazziniere.
Alla luce del giudizio espresso dal medico competente, veniva disposto il licenziamento del dipendente per sopravvenuta inidoneità fisica.
Il lavoratore impugnava il licenziamento producendo una relazione medica redatta in epoca successiva alla cessazione del rapporto di lavoro che ridimensionava fortemente la diagnosi del medico competente; le limitazioni risultanti da questa nuova perizia, infatti, gli avrebbero consentito di continuare ad operare come magazziniere o che comunque di essere ricollocato in altre mansioni disponibili in azienda.
La società non si costituiva nel giudizio di primo grado, che si concludeva con l'accoglimento delle domande formulate dal lavoratore: il Tribunale di Lodi, infatti, annullava il licenziamento per motivo oggettivo in data 4.08.2022; per l'effetto il Giudice dichiarava estinto il rapporto di lavoro alla data del recesso e condannava la società datrice di lavoro al pagamento dell'indennità prevista dall'art. 3, comma 1 del D.Lgs. 23/2015, quantificata in 24 mensilità.
Il giudice di primo grado evidenziava in particolare che:
La soluzione adottata dalla Corte d'Appello di Milano
La Corte d'Appello di Milano ha sostanzialmente confermato la sentenza di I° grado, con la sola eccezione relativa alla quantificazione dell'indennità, che è stata fissata in 15 (anziché 24) mensilità, tenuto conto in particolare della esigua anzianità di servizio del lavoratore (di poco più di un anno).
La decisione, come si può ben intuire, è fortemente condizionata dalla mancata costituzione della società datrice di lavoro nel giudizio di primo grado, fatto che ha impedito il realizzarsi di un pieno contraddittorio sui vari punti oggetto di contenzioso ed in particolare ha precluso l'assolvimento dell'onere probatorio (già di per sé assai arduo) in punto di repechage.
La Corte, infatti, ha correttamente ricordato che, in caso di licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore, grava sul datore di lavoro l'onere di provare “l'impossibilità di assegnare a quest'ultimo mansioni equivalenti o inferiori”. Se il datore di lavoro non si costituisce tempestivamente nel giudizio di primo grado, questa prova non può essere fornita e conseguentemente viene meno la base giuridica che legittima il licenziamento.
Fin qui, nulla di nuovo.
La sindacabilità dei giudizi espressi dal medico competente
La sentenza d'appello offre tuttavia lo spunto per svolgere alcune considerazioni sul tema della sindacabilità dei giudizi espressi dal medico competente.
Sappiamo bene che, per giurisprudenza costante, tutti i certificati medici sono pienamente sindacabili da parte del giudice del lavoro: essi, infatti, non contengono l'accertamento obbiettivo di un fatto, ma soltanto una valutazione di ordine medico-legale, come tale non assistita da una presunzione di veridicità, e possono dunque essere impugnati e disconosciuti in giudizio senza necessità di querela di falso contro i rispettivi estensori, neppure quando essi abbiano operato in qualità di pubblici ufficiali (Cass. 5 maggio 2000 n. 5622).
Parimenti è stato affermato che il contenuto dei certificati medici, nonché più in generale, tutti i documenti da cui derivino accertamenti di natura sanitaria collegati al rapporto di lavoro, possono essere contestati senza particolari formalità, e che a tal fine può essere addotta qualsiasi argomentazione “atta a dimostrare l'insussistenza della malattia o la non idoneità di quest'ultima a determinare uno stato di incapacità lavorativa, e quindi a giustificare l'assenza” (Cass. 16 agosto 2016 n. 17113).
La giurisprudenza si è occupata anche delle ipotesi in cui sia necessario procedere alla comparazione tra diverse certificazioni mediche aventi contenuto difforme; in questi casi, è stato affermato che il giudice di merito non deve recepire acriticamente la certificazione ufficiale (nei casi esaminati dalle pronunce, si trattava dei certificati emessi dall'organismo ispettivo dell'Inps in occasione di visite domiciliari ai dipendenti in malattia), ma deve compiere un esame comparativo tra i diversi certificati prodotti al fine di stabilire quale delle contrastanti certificazioni sia maggiormente attendibile (Cass. 5 settembre 1988 n. 5027; Cass. 11 novembre 1982 n. 5969; Cass. 4 aprile 1997 n. 2953); questo perché “le norme che prevedono la possibilità di controlli sulla malattia, nell'affidare la relativa indagine ad organi pubblici per garantirne l'imparzialità, non hanno inteso attribuire a detti accertamenti una particolare ed insindacabile efficacia probatoria che escluda il generale potere di controllo del giudice” (Cass. 14 febbraio 2008 n. 3767; Cass. 11 maggio 2001 n. 6564).
Questo principio è stato affermato anche con riguardo ai certificati di inidoneità emessi dal medico competente.
Già in altra occasione, la Corte di Cassazione aveva posto l'accento “sulla mancanza del carattere di decisività del parere espresso dal medico competente di cui alla procedura prevista dal decreto legislativo n. 626 del 1994 [ora D.Lgs. 81/08, n.d.r.]”; pertanto, prosegue la sentenza, “una volta accertato, tramite consulenza medico-legale d'ufficio, che era da escludere l'inidoneità fisica del dipendente a svolgere le mansioni assegnategli, essendo possibile l'adozione di talune cautele da parte della datrice di lavoro atte ad evitare rischi per la salute del lavoratore non restava che confermare l'illegittimità del provvedimento di licenziamento” (Cass. 10 ottobre 2013 n. 23068).
La Corte d'Appello di Milano si inserisce a pieno titolo nel solco di questo orientamento, e lo fa senza dubbio in modo condivisibile.
Meno condivisibili sembrano però – almeno a parere di chi scrive – le argomentazioni con cui la Corte ha preteso di attribuire valore preminente alla certificazione prodotta dal lavoratore.
I giudici d'appello, infatti, non hanno effettuato alcun esame comparativo tra le due certificazioni mediche prodotte in atti, né hanno ammesso una CTU volta a valutare l'effettiva portata delle limitazioni fisiche emerse a carico del dipendente, ma si sono limitati ad affermare che, una volta contestata la valutazione del medico competente da parte del lavoratore, sarebbe stato onere del datore di lavoro dimostrarne la fondatezza.
Colpisce altresì il fatto che la sentenza non faccia alcun cenno all'art. 41, c. 9, D.Lgs. 81/2008 che, come noto, prevede l'impugnabilità dei giudizi espressi medico competente davanti “…all'organo di vigilanza territorialmente competente che dispone, dopo eventuali ulteriori accertamenti, la conferma, la modifica o la revoca del giudizio stesso”. Previsione, questa, troppo spessa dimenticata e trascurata dagli addetti ai lavori e che invece potrebbe contribuire a dirimere sul nascere molte controversie.
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