Le misure di contrasto alla violenza di genere nel diritto del lavoro italiano
Le prime significative misure di contrasto alla violenza di genere sono state introdotte nel nostro ordinamento ad opera del DL 93/2013 conv. in Legge 119/2013 che ha previsto, oltre a forti misure repressive o protettive - come l'inasprimento delle pene previste a carico dei soggetti condannati per reati di violenza contro le donne, o l'istituzione delle cc.dd. “case-rifugio” (ossia quei luoghi sicuri e protetti in cui le donne che lo necessitano possono trovare protezione nel momento in cui decidono di allontanarsi da una situazione di violenza e pericolo) - anche ambiziose misure a carattere preventivo (i cc.dd. piani di azione contro la violenza di genere) volte a promuovere l'adozione di iniziative strutturate e condivise, in ambito sociale, educativo, formativo e informativo per garantire una maggiore e piena tutela alle vittime.
Il congedo ex art. 24, D.Lgs. 80/2015
La prima misura di contrasto alla violenza di genere che ha impattato sul diritto del lavoro può essere ricondotta all'art. 24 D.Lgs. 80/2015.
La disposizione in esame ha istituito uno speciale congedo, avente una durata massima di tre mesi (fruibili anche in forma frazionata nell'arco di tre anni decorrenti dalla data di inizio del percorso di protezione), che può essere richiesto dalle donne inserite nei percorsi di protezione relativi alla violenza di genere debitamente certificati dai servizi sociali del comune di residenza, dai centri antiviolenza o dalle case rifugio.
La peculiarità di questo congedo – anche alla luce delle modifiche legislative che sono state introdotte nel corso degli anni – sta nel fatto che può essere attivato non solo dalle lavoratrici dipendenti, ma anche dalle titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa e dalle lavoratrici del settore domestico.
Il congedo, però, è indennizzato con oneri a carico dello Stato ma solo per le lavoratrici dipendenti. Si realizza così una incomprensibile disparità di trattamento, con una netta penalizzazione a danno delle donne titolari di rapporti di collaborazione, che non saranno così incentivate a fruire di questo strumento.
Al di là di questo non trascurabile aspetto, il congedo in esame è una misura senz'altro meritoria, che può essere attivata dalla donna che, avendo deciso di affidarsi ai percorsi di protezione previsti dalla legge, abbia la necessità di un momento di stacco dal lavoro per poter riorganizzare la propria vita familiare e personale.
Alcuni CCNL hanno ulteriormente rafforzato questo strumento. Ad esempio, il CCNL Metalmeccanici Industria ha esteso da tre a sei mesi la durata massima del congedo (con oneri a carico dell'impresa nel secondo trimestre), prevedendo anche ulteriori misure come il diritto alla formazione continua al rientro dal congedo, la possibilità di trasferimento ad altra sede, l'utilizzo di ferie e PAR solidali. Analoga misura è prevista dal CCNL dell'Industria Alimentare, mentre il CCNL del Credito prevede un prolungamento da tre a quattro mesi dal congedo. Altri CCNL prevedono invece la copertura parziale del prolungamento del congedo (CCNL Multiservizi).
Il diritto al part-time
Sempre il D.Lgs. 80/2015 – all'art. 24, co. 6 – ha riconosciuto alle donne vittime di violenza anche il diritto alla trasformazione del rapporto di lavoro a tempo parziale. La concessione del part-time è subordinata alla sussistenza di posti disponibili in organico (dunque non costituisce un diritto assoluto della lavoratrice) ed è reversibile; la lavoratrice, infatti, può in ogni momento tornare a lavorare a tempo pieno.
Alcuni CCNL hanno integrato la disposizione in commento fissando il periodo massimo entro il quale è ammessa la concessione del part-time (12 mesi nel CCNL Metalmeccanico PMI), mentre altri hanno esteso l'applicabilità soggettiva del diritto anche al coniuge, ai figli e ai genitori delle vittime (CCNL Credito).
Ulteriori deroghe migliorative sono previste anche in sede di contrattazione aziendale.
Dal reddito di libertà agli sgravi contributivi: la leva dell'indipendenza economica
Dal 2020, con l'introduzione del c.d. reddito di libertà, il legislatore sembra aver assunto una diversa prospettiva di azione, volta non solo (come è giusto che sia) a proteggere le donne vittima di violenza, ma anche a favorire la loro indipendenza economica e a incoraggiare un loro riscatto sociale (come è facile intuire, solo la disponibilità di un reddito sufficiente può consentire alla vittima di distaccarsi dalle fonti di «pericolo», che molto spesso sono radicate nel contesto familiare di riferimento).
Il Reddito di libertà è un contributo destinato alle donne vittime di violenza, senza figli o con figli minori, seguite dai centri antiviolenza riconosciuti dalle Regioni e dai servizi sociali nei percorsi di fuoriuscita dalla violenza, al fine di contribuire a sostenerne l'autonomia e per sostenere il percorso scolastico e formativo dei figli/delle figlie minori.
L'importo del contributo è tutto sommato esiguo (parliamo di 400 euro mensili pro capite erogabili per un massimo di 12 mesi) ma ha il pregio di poter essere cumulato anche con altre forme di sussidio, come NASpI, Cassa integrazione guadagni, ANF, ecc. (v. Circ. Inps 166/2021).
La Legge di Bilancio per il 2024 ha reso strutturale questa misura (rifinanziandola) ma soprattutto previsto uno sgravio contributo (fino ad un massimo di 8.000 euro annui) in favore dei datori di lavoro privati che, nel triennio 2024-2026, assumeranno donne disoccupate vittime di violenza, beneficiarie del Reddito di libertà (o che ne abbiano beneficiato nel 2023).
Lo sgravio può essere usufruito per:
12 mesi, se l'assunzione viene effettuata con contratto di lavoro a tempo determinato;
18 mesi, se l'assunzione viene effettuata a termine ma poi convertita con la stipula di un contratto di lavoro a tempo indeterminato;
24 mesi, in caso di assunzione ab origine con contratto a tempo indeterminato.
In sostanza, il legislatore non si limita più ad approntare una rete di protezione per le donne vittima di violenza di genere, ma si pone anche l'ambizioso scopo di favorire e incentivare la loro partecipazione alla vita lavorativa e sociale del paese, attraverso lo stanziamento di fondi volti a incentivare la loro assunzione da parte delle imprese.
Un cambio di passo molto netto, che potrebbe contribuire anche a cambiare il modo in cui le imprese guardano al fenomeno della violenza di genere.
Le opportunità per le imprese
Come è facile intuire, la “leva” dello sgravio contributivo offre importanti opportunità (non solo economiche) sia alle imprese lucrative che intendono investire nel fattore della sostenibilità e della “gender equality”, sia alle organizzazioni del terzo settore, come ad es. le cooperative sociali, che – nel perseguimento dei loro scopi “sociali” - già erogano servizi assistenza alle vittime di violenza (collaborando con i centri antiviolenza nei percorsi di accoglienza, sostegno, protezione e accompagnamento), e che saranno oggi fortemente incentivate ad assorbire le donne vittime di violenza nei loro organici.
Questi incentivi peraltro, potranno essere cumulati anche con le agevolazioni previste in favore delle imprese che abbiano ottenuto la certificazione sulla parità di genere, che – lo ricordiamo – possono fruire di sgravi contributivi fino all'1% dei contributi complessivamente dovuti per un massimo € 50.000 annui per ciascuna azienda (come precisato dalla Circolare INPS n. 137/2022, lo sgravio previsto dall'art. 5 della L. 162/2021 è «cumulabile con altri esoneri o riduzioni delle aliquote di finanziamento previsti dalla normativa vigente, nei limiti della contribuzione previdenziale dovuta e a condizione che per gli altri esoneri di cui si intenda fruire non sia espressamente previsto un divieto di cumulo con altri regimi agevolativi»).