lunedì 26/02/2024 • 06:00
In caso di insussistenza del mobbing, il Giudice deve comunque verificare l’eventuale sussistenza di responsabilità in capo al datore di lavoro, per non avere adottato tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del dipendente.
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Com'è noto, l'art. 2087 c.c., prevede che: “L'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
L'art. 2087 c.c., dunque, oltre ad essere una norma di natura “prevenzionistica” (in relazione, ad esempio, agli infortuni sul lavoro), è anche una disposizione posta con la finalità di tutelare la personalità morale e professionale del lavoratore. Vieta, ad esempio, qualsivoglia molestia morale sul posto di lavoro, ed in particolare, il cd. mobbing, le molestie sessuali ed i pregiudizi alla dignità del dipendente. Lo stesso “stress da lavoro” è ormai divenuto una tipologia di rischio che il datore di lavoro deve individuare fra i possibili rischi dell'attività lavorativa.
La responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. ha natura contrattuale, considerando sia il contenuto del contratto individuale di lavoro, sia la sussistenza della responsabilità contrattuale a fronte della violazione di un'obbligazione giuridica preesistente (Cass. 25 maggio 2006, n. 12445).
Tuttavia, essa non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva: sul datore di lavoro, chiamato in giudizio dal lavoratore per il risarcimento dei danni, incombe l'onere di dimostrare di avere adottato tutte le cautele necessarie per prevenire l'evento dannoso (Cass. 1° aprile 2003 n. 4909), ovvero che quest'ultimo non è riconducibile a sua responsabilità (Cass. 27 giugno 1998, n. 6388).
Ed è proprio su tale ultimo aspetto che si concentra il principio affermato dalla sentenza della Suprema Corte in commento.
Il caso
Il caso riguarda la domanda, introdotta da una lavoratrice presso il Tribunale di Monza, volta ad ottenere il risarcimento dei danni da lei subiti a causa di comportamenti vessatori posti in essere nei suoi confronti da personale del MIUR, alle cui dipendenze aveva prestato servizio quale assistente amministrativa.
Il Tribunale di Monza aveva ravvisato gli estremi di un'ipotesi di mobbing verticale, e riconosciuto alla ricorrente il diritto al risarcimento dei danni alla salute e non patrimoniali diversi dal biologico.
La Corte d'Appello, tuttavia, chiamata a pronunciarsi in seguito all'impugnazione della sentenza di primo grado, aveva invece negato che vi fossero "elementi in base ai quali ritenere la sussistenza di singole condotte vessatorie..., né tantomeno per ritenere di essere in presenza di un'ipotesi di mobbing".
In sostanza, una volta accertata l'insussistenza del mobbing – nell'accezione tradizionale prevista dalla giurisprudenza di legittimità e di merito – la Corte d'Appello riteneva di non dover analizzare la sussistenza di eventuali altre condotte vessatorie, né se le stesse potevano essere evitate dal datore di lavoro, secondo il precetto dell'art. 2087 c.c.
La lavoratrice impugnava la sentenza di secondo grado, che approdava quindi in Cassazione.
La Suprema Corte, nell'analisi della fattispecie, ha approcciato il tema indagando sulla sussistenza e sulla configurabilità degli estremi del mobbing, evidenziando che: “l'elemento qualificante va ricercato non nella legittimità o illegittimità dei singoli atti bensì nell'intento persecutorio che li unifica, che deve essere provato da chi assume di avere subito la condotta vessatoria e che spetta al giudice del merito accertare o escludere, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto […] a tal fine la legittimità dei provvedimenti può rilevare, ma solo indirettamente perché, ove facciano difetto elementi probatori di segno contrario, può essere sintomatica dell'assenza dell'elemento soggettivo che deve sorreggere la condotta, unitariamente considerata”.
L'assunto è utilizzato dai giudici per evidenziare che una pluralità di comportamenti illegittimi non implica, di per sé, la sussistenza del mobbing, ma che allo stesso modo la legittimità di ogni singolo comportamento – complessivamente considerato - non esclude affatto l'intento vessatorio del datore di lavoro.
Ed infatti i giudici hanno evidenziato come non possa mancare una valutazione complessiva della pluralità dei fatti allegati come integranti il mobbing, fermo restando che la prova dell'elemento soggettivo è facilitata nel caso di comportamenti illeciti ed è, al contrario, resa più difficile dalla riscontrata legittimità di tutti i comportamenti denunciati, come unitariamente finalizzati alla persecuzione e all'isolamento del lavoratore.
Ma la Suprema Corte si spinge oltre e ritiene che risulta necessario indagare, al di là della configurabilità o meno del mobbing, anche l'eventuale responsabilità del datore di lavoro per le condotte vessatorie accertate nel giudizio, unitariamente considerate: “anche nel caso in cui dovesse essere confermata l'assenza degli estremi del mobbing, non verrebbe comunque meno la necessità di valutare e accertare l'eventuale responsabilità del datore di lavoro per avere anche solo colposamente omesso di impedire che un ambiente di lavoro stressogeno provocasse un danno alla salute della ricorrente. Infatti, "è illegittimo che il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori..., lungo la falsariga della responsabilità colposa del datore di lavoro che indebitamente tolleri l'esistenza di una condizione di lavoro lesiva della salute, cioè nociva, ancora secondo il paradigma di cui all'art. 2087 c.c. (Cass. 3692/2023, che cita a sua volta Cass. n. 3291/2016)”.
Sotto un profilo prettamente processuale, poi, i giudici di legittimità hanno evidenziato che “non integra violazione dell'art. 112 cod. proc. civ. l'aver qualificato la fattispecie come straining mentre in ricorso si sia fatto riferimento al mobbing, in quanto si tratta soltanto di adoperare differenti qualificazioni di tipo medico-legale, per identificare comportamenti ostili, in ipotesi atti ad incidere sul diritto alla salute, costituzionalmente tutelato, essendo il datore di lavoro tenuto ad evitare situazioni "stressogene" che diano origine ad una condizione che, per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto possa presuntivamente ricondurre a questa forma di danno anche in caso di mancata prova di un preciso intento persecutorio”.
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Marco Sartori
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