lunedì 11/12/2023 • 06:00
Anche ai giudizi pendenti su licenziamenti già intimati si applica la modifica adottata dalla Corte Costituzionale sulla manifesta insussistenza del fatto nel giustificato motivo oggettivo di licenziamento.
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Prima di affrontare l'argomento, è opportuno ripercorrere brevemente la recente evoluzione giurisprudenziale del concetto di “manifesta insussistenza del fatto” posto a fondamento del giustificato motivo oggettivo di licenziamento.
Nel maggio 2022, con una sentenza di sensibile portata interpretativa, che ha modificato anche la portata dell'onere probatorio posto in capo al datore di lavoro, la Consulta ha ritenuto costituzionalmente illegittima la parola “manifesta” in riferimento all'insussistenza del fatto che ha originato il licenziamento.
Il ragionamento dei giudici delle leggi, sul punto, ha qualificato la manifesta insussistenza del fatto quale “assenza – evidente e facilmente verificabile – dei presupposti che legittimano il recesso e come elemento rivelatore del carattere pretestuoso del licenziamento intimato”. Proseguendo, la Corte ha poi ritenuto che detta sussistenza non si presta a controvertibili graduazioni in chiave di “evidenza fenomenica”, ma si traduce piuttosto una alternativa netta, che l'accertamento del giudice è chiamato a sciogliere in termini positivi o negativi.
All'atto pratico, quindi, per la Corte Costituzionale, due sole sono le alternative che si possono verificare, e sono tra di loro esclusive ed escludenti: la prima è che il fatto posto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo sussista, la seconda è che tale fatto non sussista.
Tale assunto postula che il giudizio del magistrato investito della questione, debba limitarsi esclusivamente alla legittimità o meno del licenziamento, e non sconfinare in un sindacato di congruità e di opportunità.
Questi, in estrema sintesi, i motivi per cui la Sentenza della Corte Costituzionale n. 125/2022 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 18, c. 7, secondo periodo, legge 300/70, come modificato dalla legge Fornero del 2012, limitatamente alla parola “manifesta”.
La questione non è banale o trascurabile: la manifesta insussistenza del fatto posto alla base del giustificato motivo oggettivo, prima di tale sentenza, rappresentava l'unica ipotesi di reintegrazione del lavoratore in caso di licenziamento ingiustificato per motivo economico, ricorrendo i due ulteriori criteri dimensionale e temporale.
Il caso di specie
Il tema introdotto dalla decisione della Corte di Cassazione, la n. 31409 pubblicata il 13 novembre 2013, riguarda l'applicabilità o meno di tale principio ai licenziamenti già intimati, e non ancora definiti giudizialmente, alla data di pubblicazione della sentenza della Consulta.
Il caso riguarda il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, avvenuto nel luglio 2017, di una lavoratrice; in primo grado il Tribunale aveva accolto il ricorso, e condannato la società alla reintegrazione nel posto di lavoro.
Decisione poi confermata anche in sede di reclamo, nonostante il datore di lavoro avesse indicato, come motivo di impugnazione, l'errata valutazione delle risultanze istruttorie circa l'illegittimità del recesso e, in subordine, l'errata applicazione della tutela c.d. reale, poiché difettava il presupposto della manifesta insussistenza del giustificato motivo oggettivo.
Il datore di lavoro si rivolgeva quindi alla Suprema Corte e, tra i vari motivi di impugnazione, ne proponeva uno ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3). In particolare, lamentava la “violazione e falsa applicazione” della L. n. 300 del 1970, art. 18, commi 7 e 4, per aver ritenuto la manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento e quindi applicato la tutela c.d. reale invece di quella meramente indennitaria.
Investiti della questione, i giudici di legittimità hanno rigettato il motivo di impugnazione, ritenendolo “infondato a seguito della sentenza n. 125/2022 della Corte Costituzionale, applicabile anche ai rapporti giuridici non ancora esauriti”.
Anche alla modifica costituzionale in parola, quindi, la Suprema Corte applica il noto principio per cui le norme dichiarate incostituzionali “non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”.
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