La Corte Costituzionale analizza una questione di legittimità costituzionale sollevata da un Tribunale relativamente alla procedura per l'emersione dei rapporti di lavoro irregolari (art. 103 DL 34/2020 conv. in L. 77/2020). In particolare, oggetto di pronuncia è il ricorso di un datore di lavoro a cui l'Ispettorato aveva negato l'emersione di 18 rapporti di lavoro irregolari come manodopera agricola a causa della mancanza del requisito economico previsto.
Procedura di emersione: di cosa si tratta?
Le questioni di legittimità costituzionale sollevate dall'ordinanza di rimessione riguardano una delle due procedure di regolarizzazione previste dall'art. 103 DL 34/2020 conv. in L. 77/2020 la quale consente ai datori di lavoro di presentare domanda per concludere un contratto di lavoro subordinato con cittadini stranieri presenti sul territorio nazionale ovvero per dichiarare la sussistenza di un rapporto di lavoro irregolare, tuttora in corso, con cittadini italiani o cittadini stranieri», soggiornanti in Italia prima dell'8 marzo 2020 e che non abbiano lasciato il territorio nazionale dopo quella data.
L'instaurazione o la regolarizzazione del rapporto di lavoro è consentita solo in presenza di determinati limiti di reddito del datore di lavoro, fissati in un reddito imponibile o di un fatturato non inferiore a € 30.000,00 annui.
La mancanza del requisito reddituale in capo al datore di lavoro – che impedisce la positiva definizione della procedura di emersione – non consente neanche il rilascio di un permesso di soggiorno per attesa occupazione.
La pronuncia della Corte
Per la Corte Costituzionale, dal citato art. 103 emerge l'esigenza che venga data prova della «capacità economica del datore di lavoro» e della «congruità delle condizioni di lavoro applicate», a tutela sia dell'interesse pubblico ad evitare istanze di emersione elusive o fittizie, sia dell'interesse del singolo lavoratore assunto al rispetto del corretto trattamento retributivo e contributivo. In tal senso depongono anche le disposizioni dettate dai commi 4 e 6 del medesimo articolo che fanno riferimento, la prima, alla retribuzione «prevista dal contratto collettivo di lavoro di riferimento stipulato dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale» e, la seconda, alla necessaria dimostrazione dell'attività lavorativa realmente svolta. Il censurato art. 103 complessivamente considerato, dunque, non solo costituisce la base legale del potere interministeriale di determinare i limiti di reddito che devono sussistere in capo al datore di lavoro per l'accesso alla procedura di emersione e per la sua positiva definizione, ma lo delimita adeguatamente, indicando, in modo ragionevolmente sufficiente, i parametri a cui l'esercizio di detto potere deve conformarsi.
La previsione di un reddito minimo del datore di lavoro, inoltre, assolve alla funzione di prevenire elusioni del sistema di emersione del lavoro irregolare, assicurando la sostenibilità del costo del lavoro per garantire il rispetto dei diritti del lavoratore sotto il profilo retributivo e contributivo, nonché per evitare domande strumentali alla regolarizzazione di rapporti lavorativi “fittizi”, volti solamente a far conseguire allo straniero un titolo di soggiorno.
Infine, la corte precisa che nessuna analogia può essere fatta con un'altra disciplina legislativa relativa all'emersione e risalente al 2012, la quale consentiva il rilascio di un permesso di soggiorno per attesa occupazione anche in caso di esito negativo della procedura. Le procedure di emersione del 2012 e del 2020 sono, quindi, differenti per presupposti applicativi e finalità perseguite; proprio la non omogeneità delle situazioni normative messe a confronto esclude che la diversità di disciplina in tema di rigetto della dichiarazione di emersione per difetto del requisito reddituale in capo al datore di lavoro integri una lesione dell'art. 3 Cost.
Fonte: C.Cost. 24 novembre 2023 n. 209