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lunedì 23/10/2023 • 06:00

Caso Risolto Contrasto giurisprudenziale

Impugnativa del licenziamento e l’eventuale volontà implicita del lavoratore

L’impugnativa del licenziamento deve contenere espressioni precise, predefinite e/o sacramentali, oppure è sufficiente che si evinca la volontà del lavoratore di contestare la legittimità del provvedimento, anche in modo implicito?

di Maria Grazia Paba - Avvocato in Milano

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  • Tempo di lettura 6 min.
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L'art. 6 Legge 604/66, al primo comma, prevede che “il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro 60 giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta, ovvero dalla comunicazione, anch' essa in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale, con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore anche attraverso l'intervento dell'organizzazione sindacale diretto ad impugnare il licenziamento stesso”.

Dunque, il licenziamento può essere impugnato con qualsivoglia comunicazione scritta che sia idonea a rendere nota la volontà del lavoratore di impugnare il provvedimento.

Al secondo comma, inoltre, la norma stabilisce che “l'impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di centottanta giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, ferma restando la possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso. Qualora la conciliazione o l'arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l'accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo”.

Il caso.

Il Tribunale di Milano si è recentemente pronunciato sulla vicenda di una lavoratrice licenziata per giusta causa che, nell'immediatezza della cessazione del rapporto, trasmetteva all'ex datore di lavoro una comunicazione con cui contestava la condotta datoriale ed invitava il medesimo a revocare il provvedimento. In tale comunicazione veniva espressamente specificato che, se il datore di lavoro non avesse revocato il licenziamento, la lavoratrice avrebbe impugnato il medesimo nei termini previsti dalla legge. A seguito della conferma del licenziamento - e dunque in assenza della revoca del medesimo - la lavoratrice trasmetteva all'ex datore di lavoro una seconda comunicazione con cui impugnava espressamente il provvedimento espulsivo entro il termine di legge di 60 giorni dalla comunicazione del medesimo.

Al fine del calcolo della decorrenza del termine di 180 giorni per introdurre il giudizio (secondo comma dell'art. 6 della Legge 604/66), la lavoratrice considerava la data in cui aveva trasmesso al datore di lavoro la seconda comunicazione, ovvero la missiva che conteneva l'espressa volontà di impugnare il provvedimento espulsivo.

Nel medesimo termine così calcolato - ovvero decorrente dalla seconda comunicazione - ella esperiva anche un tentativo di conciliazione ex art. 410 cpc che si concludeva con esito negativo.

Era dunque costretta ad adire il Tribunale del Lavoro.

Nella memoria di costituzione, il datore di lavoro eccepiva la decadenza dal termine di impugnazione giudiziale del licenziamento poiché il tentativo di conciliazione era stato esperito oltre i 180 giorni dalla prima comunicazione trasmessa al datore di lavoro, e di conseguenza il giudizio era stato introdotto in ritardo.

Secondo la tesi del datore di lavoro, infatti, era irrilevante che con la prima comunicazione la lavoratrice si fosse riservata di impugnare il licenziamento: la missiva conteneva la contestazione della validità ed efficacia del provvedimento espulsivo, e dunque la volontà implicita di impugnare.

Secondo la difesa della lavoratrice, invece, la prima comunicazione trasmessa al datore di lavoro conteneva l'inequivoca volontà di non impugnare (almeno in quel momento) il licenziamento, poiché ella si era espressamente riservata di impugnare il licenziamento nell'ipotesi in cui non fosse intervenuta una tempestiva revoca del provvedimento.

La giurisprudenza.

La Suprema Corte, in tema di impugnativa del licenziamento, ha chiarito che “ai fini dell'impugnazione extragiudiziale del licenziamento, ai sensi dell'art. 6 Legge 604/66, è sufficiente ogni atto scritto con cui il lavoratore manifesti al datore di lavoro, con qualsiasi termine, anche non tecnico, e senza formule prestabilite, la volontà di contestare la validità e l'efficacia del provvedimento, essendo in detta manifestazione di volontà implicita la riserva di tutela dei propri diritti davanti all'autorità giudiziaria" (Cass. Civ., Sez. Lavoro, n. 7405/1994; 6102/1991).

E questa era la tesi difensiva datoriale: la volontà di impugnare della lavoratrice era implicitamente ricavabile dalle contestazioni mosse nei confronti del datore di lavoro con la prima comunicazione.

Tuttavia, la giurisprudenza di merito ha altresì precisato che “ciò che rileva è che l'atto esprima la volontà inequivoca di impugnare il licenziamento” (Trib. Novara n. 29/2022; Trib. Foggia n. 3145/2021).

In un caso assimilabile a quello analizzato, per analogia dei principi giuridici, inoltre, la Suprema Corte ha specificato che nel caso in cui vi siano due impugnative del licenziamento - di cui la prima trasmessa da un'organizzazione sindacale e la seconda direttamente dal lavoratore - ai fini del calcolo del termine di decadenza per proporre ricorso giudiziale deve tenersi conto della seconda (ovvero l'impugnativa del dipendente) “in relazione alla quale vi è la certezza della cognizione da parte dell'interessato, in una prospettiva di un pieno ed effettivo esercizio del suo diritto alla tutela giudiziaria che è un bene, a livello ordinamentale, costituzionalmente riconosciuto e garantito”. Secondo la Suprema Corte, infatti, devono essere sempre privilegiati “i requisiti di volontà e consapevolezza da parte del lavoratore dell'atto” in quanto “solo una visione completa e informata da parte dell'interessato delle varie scansioni temporali, cui è successivamente obbligato, non determina una compromissione della sua tutela giudiziaria, in violazione dell'art. 24 Cost., dell'art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'UE e degli artt. 6 e 13 della CEDU” (Cass. n. 16591/2018).

Tale consapevolezza, secondo la difesa della ricorrente, era stata acquisita solo con la trasmissione della seconda comunicazione, ovvero con la missiva con cui la lavoratrice aveva indicato specificamente di impugnare il licenziamento.

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