La Corte Costituzionale, con sentenza 5 ottobre 2023 n. 185, torna ad occuparsi dell'obbligo vaccinale contro la diffusione del COVID-19 riservato agli operatori del settore sanitario. In questo caso, la questione di legittimità costituzionale viene sollevata da un soggetto che non svolgeva la mansione di operatore sanitario e, tuttavia, veniva ricompreso tra le categorie di lavoratori soggette a vaccinazione obbligatoria.
Il caso
Un soggetto che esercitava la professione di chimico veniva sospeso dal proprio Albo professionale poiché aveva rifiutato la vaccinazione COVID-19 obbligatoria e destinata a tutti gli esercenti le professioni sanitarie (art. 4 DL 44/2021 conv. in L. 76/2021).
Secondo il ricorrente, non sarebbe ragionevole e sarebbe contrario al principio di eguaglianza imporre un obbligo vaccinale a tutti gli esercenti le professioni sanitarie “latamente intese”, ossia a tutti quelli che sono qualificati come esercenti professioni sanitarie, e non soltanto agli operatori sanitari (o al più a quelli che svolgano la loro attività in luoghi di cura). I soggetti che svolgono professioni sanitarie solo nominalmente tali, come i fisici e i chimici, non potrebbero essere considerati operatori sanitari, perché non svolgono relazioni di cura con i pazienti, né sarebbero diversi da altri professionisti che sono esenti dall'obbligo, come gli avvocati, i notai, gli operatori commerciali, gli insegnanti. Né quest'obbligo è limitato ai casi in cui questi professionisti operino in luoghi di cura.
Alla luce di queste considerazioni, viene chiesta la dichiarazione di incostituzionalità dell'obbligo vaccinale per gli esercenti di una professione sanitaria non comportante una relazione di cura/lo svolgimento di attività in luoghi di cura o, comunque, per gli esercenti la professione di Chimico e Fisico.
La decisione della Corte Costituzionale
Investita della questione di legittimità costituzionale dal Tribunale, la Corte Costituzionale afferma innanzitutto che l'obbligo di vaccinazione e la correlata sospensione per inadempimento allo stesso devono ritenersi misure ragionevoli e non sproporzionate: ciò in considerazione, da un lato, del ragionevole bilanciamento operato dal legislatore tra la dimensione individuale e quella collettiva del diritto alla salute, alla luce della situazione sanitaria dell'epoca e delle conoscenze medico-scientifiche disponibili, e, dall'altro lato, della proporzionalità della misura imposta anche in ragione della sua temporaneità.
Con riguardo alla perimetrazione dell'imposizione dell'obbligo vaccinale, il legislatore ha effettuato una scelta di carattere generale basata su categorie predeterminate, individuate progressivamente sulla base dell'evoluzione della pandemia.
La prima categoria è stata quella degli esercenti le professioni sanitarie e degli operatori di interesse sanitario A tale primo criterio di portata generale si è, poi, affiancato, tra gli altri, un criterio integrativo legato non alla natura dell'attività professionale, ma al luogo di svolgimento dell'attività lavorativa; l'obbligo è stato così esteso a coloro che svolgevano le loro attività in luoghi deputati alla cura e alla diagnosi: strutture residenziali, socio-assistenziali e socio-sanitarie e strutture sanitarie e sociosanitarie.
A tali considerazioni sulla non irragionevolezza della scelta dell'imposizione dell'obbligo vaccinale per categorie va aggiunto che essa risulta non sproporzionata, considerando la portata della conseguenza dell'inadempimento dell'obbligo vaccinale – rappresentata dalla sospensione del rapporto lavorativo, peraltro priva di conseguenze disciplinari – e la natura transitoria dell'imposizione dell'obbligo vaccinale, correlata alla sua modulazione in connessione con l'andamento della situazione pandemica in corso.
Alla luce di tutte queste considerazioni, la Corte dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale.
Fonte: C.Cost. 5 ottobre 2023 n. 185