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lunedì 18/09/2023 • 06:00

Caso Risolto Contrasto giurisprudenziale

Critica al datore su Facebook o Whatsapp: limiti al licenziamento

La critica al datore di lavoro, per essere legittima, deve concernere le condizioni di lavoro o sindacali, conformarsi a canoni di correttezza, misura e rispetto della dignità, e se consiste nell’attribuzione di determinati fatti, deve rispondere a verità. Ma sono punibili gli sfoghi contro i datori che si leggono sui social network o nelle chat tra colleghi?

di Alessandro Ripa - Avvocato in Milano

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  • Tempo di lettura 7 min.
  • Ascolta la news 5:03

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È ormai piuttosto appurato che, per un dipendente, pubblicare dei post gravemente offensivi, verso il datore di lavoro, sul proprio profilo Facebook - specie se “aperto” e visibile a tutti gli utenti - equivalga ad acquistare uno spazio su un quotidiano per pubblicizzare analoga esternazione. Senza dover sottostare ad alcun vaglio di qualità. Ciò nonostante, i messaggi postati hanno spesso il dono della sintesi, e della chiarezza: “mi sono rotta i c… di questo posto di m…, e per la proprietà”; cfr. Cass. 27 aprile 2018, n. 10280. E anche se il nome del datore di lavoro non è specificato, si ritiene che il lettore sia comunque in grado di distinguerlo, ed apprezzare lo scritto (“con irrilevanza della specificazione del nominativo del rappresentante della stessa, essendo facilmente identificabile il destinatario; Cass. n. 10280/2018 cit.). In questi casi, hanno il fiato corto le difese dei loro autori (di cui si fa cenno in alcune sentenze), accomunate dall'ingenua sorpresa che quel commento denigratorio abbia avuto una simile diffusione e successo. Per esempio, si legge in Cass. n. 10280/2018 che “l'uso dello strumento Facebook aveva determinato l'inconsapevolezza di esporre nel mondo reale il proprio sfogo, diretto nelle intenzioni a pochi interlocutori ammessi”; allo stesso modo, in Cass. 13 ottobre 2021, n. 27939 si denuncia la “illegittima acquisizione dalla società datrice dei post presenti sulla pagina Facebook del lavoratore, in quanto destinata alla comunicazione esclusiva con i propri "amici" e pertanto riservata”.   In simili vicende, i principi che presidiano la legittimità della giusta causa di licenziamento dell'incauto opinionista sono quasi consolidati: “La diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l'uso di una bacheca "facebook" integra un'ipotesi di diffamazione, per la potenziale capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone […] Ciò comporta che la condotta di postare un commento su facebook realizza la pubblicizzazione e la diffusione di esso, per la idoneità del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del commento tra un gruppo di persone, comunque, apprezzabile per composizione numerica” […] “se, come nella specie, lo stesso è offensivo nei riguardi di persone facilmente individuabili, la relativa condotta integra gli estremi della diffamazione e come tale correttamente il contegno è stato valutato in termini di giusta causa del recesso, in quanto idoneo a recidere il vincolo fiduciario nel rapporto lavorativo” (Cass. n. 27939/2021 e Cass. n. 10280/2018 cit.). Molto più complicato, invece, è riuscire a sanzionare chi si esprima in modo altrettanto irrispettoso in una chat; aziendale, di Facebook, o via whatsapp. Se ne è occupata in più occasioni la giurisprudenza, anche nel corso di quest'anno. Sullo specifico tema, una pronuncia di Cassazione di qualche anno fa è stata illuminante nel chiarire che “i messaggi scambiati in una ‘chat' privata, seppure contenenti commenti offensivi nei confronti della società datrice di lavoro, non costituiscono giusta causa di recesso poiché, essendo diretti unicamente agli iscritti ad un determinato gruppo e non ad una moltitudine indistinta di persone, vanno considerati come la corrispondenza privata, chiusa e inviolabile, e sono inidonei a realizzare una condotta diffamatoria in quanto, ove la comunicazione con più persone avvenga in un ambito riservato, non solo vi è un interesse contrario alla divulgazione, anche colposa, dei fatti e delle notizie ma si impone l'esigenza di tutela della libertà e segretezza delle comunicazioni stesse” (Cass. 10 settembre 2018, n. 21965). Dunque, le chat sono “corrispondenza”, non “pubblicazione” di contenuti, i più vari. Ed in ragione di ciò godono della “libertà e segretezza della corrispondenza”, che “presidia anche i messaggi di posta elettronica scambiati mediante mailing list riservata a un determinato gruppo o tramite chat privata” (Cass. n. 21965/2018 cit.).    La vicenda che aveva originato quest'ultima pronuncia riguardava la chat di un gruppo Facebook composto unicamente da iscritti ad un sindacato - dunque “una chat chiusa o privata” precisa la Suprema Corte - nella quale era circolato un messaggio offensivo nei confronti dell'amministratore delegato della datrice di lavoro. Uno dei partecipanti della chat aveva deciso di stampare la conversazione, e inviarla in modo anonimo in azienda, così innescando la procedura di licenziamento del compagno di chat. Il terzo grado di giudizio, tuttavia, aveva concluso per la inutilizzabilità del documento: si trattava di “uno sfogo in un ambiente ad accesso limitato […] logicamente incompatibile con i requisiti propri della condotta diffamatoria […] che presuppone la destinazione delle comunicazioni alla divulgazione nell'ambiente sociale” (Cass. n. 21965/2018 cit.).    I principi di questo arresto della Suprema Corte sono i più richiamati dalle (svariate) successive sentenze di merito, specie sul fronte delle indebite critiche rivolte al datore su chat whatsapp tra colleghi, poi inoltrate da qualche partecipante. Così, per esempio, il Tribunale di Firenze - sulla base di quei principi, e ritenendo il fatto insussistente - ha reintegrato nel posto di lavoro il dipendente licenziato perché reo di “aver registrato, su una chat di whatsapp denominata ‘Amici di lavoro' alcuni messaggi vocali, riferiti al superiore gerarchico e ad altri colleghi, con contenuti offensivi, denigratori, minatori e razzisti”. Identica reintegrazione per la Corte d'Appello di Milano, in una vicenda in cui i messaggi offensivi ad un superiore gerarchico erano stati estratti, dal datore di lavoro, da una chat aziendale per l'accesso alla quale era necessaria una password, ed i cui messaggi potevano essere letti solo dai destinatari (Cass. 22 settembre 2021, n. 25731 che avalla il ragionamento del Collegio di Milano). Più di recente, il Tribunale di Milano ha dichiarato l'illegittimità del licenziamento, intimato da un'azienda in tutela obbligatoria, per analoghe offese ad un responsabile della pianificazione dei turni (tratte da una corrispondenza whatsapp) in assenza della prova che le frasi ingiuriose “potessero essere inserite in un contesto che eccedesse la dimensione privata per divenire ambito pubblico lavorativo” (Trib. Milano, 30 aprile 2022, n. 1020). Adesione piena ai principi di Cass. n. 21965/2018 anche da parte del Tribunale di Trani, nella sentenza del 18 gennaio 2023, n. 2236. Sembrerebbe un coro all'unisono, ma non è così.          Il contrasto di giurisprudenza La Corte d'Appello di Venezia, esaminando la vicenda di un video circolato in una chat whatsapp tra colleghi che ritraeva - ridicolizzandolo - il responsabile di un negozio, ha ritenuto che il materiale fosse utilizzabile. Il video era stato inoltrato, da un delatore compreso nel “gruppo whatsapp”, sia al call center della società, sia ad un dirigente verosimilmente di vertice (App. Venezia, 27 luglio 2020, n. 258). Per il Collegio di Venezia, la comunicazione all'esterno era “avvenuta ad opera di uno dei partecipanti con l'evidente intento di delegittimare, non uno di essi, ma il protagonista del video, ossia il responsabile del negozio. Ne deriva che il principio affermato dalla sentenza n. 28195 del 2018 non si attaglia alla fattispecie” e non rende “il video oggetto di causa inutilizzabile, in quanto l'acquisizione da parte della Società non è avvenuta a seguito di intrusione di un terzo non iscritto al gruppo, con violazione dunque della libertà e segretezza della corrispondenza, bensì a seguito di consegna da parte di un dipendente iscritto al gruppo, come tale destinatario della corrispondenza in questione”. Da ultimo, “va poi rammentato che, una volta che la comunicazione è stata inoltrata, il destinatario è libero di farne l'uso che ritiene e quindi di divulgarla a terzi (Cass. pen. V, 40022 del 2014)” (App Venezia, cit.). Nessuna intrusione, dunque, in un ambito protetto a livello costituzionale. Ed una sostanziale punizione per l'autrice del video - colpevole di averlo “messo in circolo” in modo non più controllabile - che si è vista riformare la sentenza che l'aveva reintegrata, ed attribuire una semplice somma per la sproporzione del licenziamento. ...

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