Con il DM 7 agosto 2023 n. 110 il Ministro della giustizia ha adottato un regolamento attuativo dell'art. 46 disp. att. al c.p.c. circa la definizione dei criteri di redazione, dei limiti e degli schemi informatici degli atti processuali.
La violazione di esso – è bene ricordarlo immediatamente – ai sensi dell'art. 46 c. 6 disp. att. al c.p.c. non comporta l'invalidità dell'atto ma solo la possibilità (e non la doverosità) che di ciò il giudice tenga conto ai fini della decisione sulle spese del processo.
Nonostante ciò, l'emissione di questo decreto ha dato luogo a non poche polemiche, sebbene nel decreto stesso non siano mancate esenzioni totali (come quella della non applicabilità dei limiti dimensionali degli atti per le cause di valore superiore a euro 500.000, evidentemente considerate di per sé complesse, che però dà luogo ad una illogica discriminazione per valore, mentre sinora quest'ultimo serviva solo a discriminare ai fini della competenza) o parziali (come i riferimenti a giurisprudenza e dottrina nelle note degli atti processuali) o deroghe (per le questioni di particolare complessità).
Il processo tributario
Dal punto di vista del processo tributario, non sono mancati i sostenitori della tesi dell'applicabilità di tale decreto, accanto a quelli della tesi avversa.
Al fine di individuare la soluzione, si devono prendere le mosse dall'art. 1 c. 2 D.Lgs. 546/92, che, come noto, ha indicato le norme del codice di procedura civile per quanto non disposto e compatibile.
La prima domanda da porsi è quindi se l'art. 46 disp. att. al c.p.c. e il decreto emesso ai sensi del suo quinto comma rientrino tra le norme del codice di procedura civile o meno.
In proposito non si può trascurare che le disposizioni di attuazione al c.p.c. costituiscono un corredo applicativo delle regole poste da esso e rientrano nel corpo delle norme processuali civili. Non osta a tale lettura la fonte normativa differenziata delle disposizioni di attuazione, vale a dire il r.d. 18 dicembre 1941 n. 1368, posteriore rispetto al r.d. 28 ottobre 1940, n. 1443: in quest'ultimo, difatti, era previsto che l'entrata in vigore del codice di procedura civile avesse esecuzione a cominciare dal 21 aprile 1942 e quindi aveva senso che la pubblicazione del codice con il nuovo rito avvenisse con il maggior anticipo possibile rispetto all'entrata in vigore, senza attendere l'ultimazione delle regole esplicative e di dettaglio.
Ed allorquando il legislatore ha inteso intervenire decisamente sul rito processuale civile ha modificato sia il codice di procedura civile sia le relative disposizioni di attuazione. Si pensi, da ultimo, a quanto avvenuto con il D.Lgs. 149/2022 (c.d. riforma Cartabia).
L'applicazione al processo tributario delle disposizioni di attuazione al c.p.c. è stata ritenuta d'altra parte pacifica sinora sia dalla dottrina sia dalla giurisprudenza.
L'attenzione si sposta quindi sulla sussistenza dei rimanenti due requisiti previsti dall'art. 1 c. 2 D.Lgs. 546/92.
In relazione alla mancata previsione di alcuna regola similare sulla definizione dei criteri di redazione, dei limiti e degli schemi informatici degli atti processuali si deve prendere atto della mancanza di essi nel rito processuale tributario. Non sono presenti negli artt. 18 e 23 per il primo grado e nemmeno negli artt. 53 (essendo evidentemente insufficiente il mero richiamo colà effettuato all'esposizione sommaria dei fatti) e 54. E nemmeno negli atti riferiti alle misure cautelari richieste o all'ottemperanza (essendo nuovamente inidonea a tal fine la prescrizione relativa alla sommaria esposizione dei fatti).
Resta quindi l'ultimo requisito della compatibilità della specifica previsione processualcivile con il rito processuale tributario.
Un siffatto profilo scaturisce da un esame svolto alla luce della compatibilità strutturale e funzionale della specifica regola rispetto al rito tributario. Esame dal quale non emergono incompatibilità.
Da un punto di vista strutturale, l'obbligo di osservare determinati criteri di redazione e specificati limiti dimensionali, così come configurato in concreto, non confligge di per sé con il rito tributario e con le particolarità di un giudizio caratterizzato dall'annullamento di atti e connotato da una considerevole destrutturazione del rito rispetto al processo civile. Egualmente accade sotto il profilo funzionale.
Peraltro, lo impedisce anche la possibilità prevista dall'art. 5 del decreto del superamento dei limiti dimensionali per le questioni “di particolare complessità, anche in ragione della tipologia, del valore, del numero delle parti o della natura degli interessi coinvolti” (se taluno obiettasse che le controversie tributarie sono fisiologicamente complicate, dovrebbe riconoscere al contempo che nel DM 110/2023 le questioni complesse non sono soggette a limiti). Nonché la particolare tenuità delle conseguenze previste per la violazione delle regole indicate nel decreto (vale a dire, solamente la possibilità della valutazione ai fini della condanna alle spese, ferma restando la validità dell'atto).
Né, così facendo, potrebbe concludersi che si verifichi una disarmonia non giustificata od un appiattimento sulla diversa esperienza del processo civile. Quanto alla prima, essa sussisterebbe semmai se la disciplina fosse difforme. Per il secondo profilo, non ci si trova dinnanzi ad un'esperienza già esistente nel processo civile, ma più semplicemente ad un nuovo modo di scrivere gli atti processuali che entra in vigore simultaneamente nei due riti.
Non si è nemmeno davanti ad un singolo istituto del processo civile, di cui ci si domanda l'applicabilità o meno, bensì di una maniera di rappresentare le proprie ragioni in modo che siano maggiormente comprensibili e più facilmente inquadrabili, ferma restando la pienezza del diritto di difesa.
Conclusioni
L'esigenza di sinteticità degli atti processuali, di cui il decreto Nordio costituisce solo uno dei modi possibili di declinazione, è del resto sentita in tutto l'ordinamento (tanto che nel processo amministrativo è regolata con approccio incondivisibilmente draconiano).
Né si può argomentare circa l'incompetenza funzionale del Ministero della giustizia, ricadendo la materia tributaria tra le attribuzioni del Ministero dell'economia e delle finanze: il rinvio effettuato dalla norma processuale tributaria al codice del processo civile e la previsione espressa, contenuta nell'art. 46 disp. att. al c.p.c., della potestà di emissione del decreto regolamentare da parte del Ministro della giustizia escludono la potestà di intervento in materia da parte di altri.
La giurisprudenza tributaria, d'altronde, si era già trovata ad affrontare la problematica degli atti prolissi, che in un caso ha risolto in modo non condivisibile concludendo per l'inammissibilità dell'atto processuale introduttivo nel giudizio di merito. Questa conclusione era errata e sproporzionata.
Il decreto Nordio prescrive per l'atto ingiustificatamente prolisso la sola possibilità di valutazione ai fini della condanna alle spese.